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Imparando dalle Favelas. Intervista a Vilson Groh. Domenico Potenza
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Si è tenuta a Pescara il 31 luglio scorso una manifestazione organizzata dal Dipartimento di Architettura in collaborazione con Missione Africa per l’inaugurazione del Laboratorio Città Informale all’interno della quale l’evento centrale è stato l’incontro con padre Vilson Groh un sacerdote che vive ed opera tra gli abitanti delle favelas di Florianopolis (Brasile) nel segno del dialogo e dell’intercultura.
Il suo testo “INVESTIRE SUI POVERI. Padre Vilson Groh e il Progetto Aquilone” analizza e fa riflettere il lettore sul problema della povertà nel mondo, a partire dall’analisi dei tratti salienti della società globale contemporanea e dell’esperienza diretta del lavoro nelle favelas. In particolare, padre Vilson, pone l’attenzione sul valore “educativo” della stessa globalizzazione, intesa come accesso più o meno diretto e preponderante alle risorse tecnologiche del “digital divide”, tra Nord e Sud del mondo. Tale divario, di cui si da ampio conto, è all’origine, secondo l’autore, di ulteriori disuguaglianze tra popoli e culture differenti, che possono essere superate solo attraverso una presa di coscienza collettiva del problema a partire in primis dai Paesi sviluppati.
Allo scopo di avviare una concreta risoluzione del problema il testo auspica inoltre la creazione di una apposita “Global governance” delle istituzioni locali a quelle soprannazionali, al dichiarato scopo di regolare i flussi economici mondiali. Tutto ciò a fronte di un marcato aumento delle disuguaglianze anche economiche e di reddito tra lo stato più ricco e quello più povero del mondo. Ad oggi, ad esempio, nel mondo globalizzato,  è stato accertato che in Brasile sono otto milioni i bambini e gli adolescenti che vivono e dormono in strada e che l’Africa è la regione più sfruttata dell’intero pianeta, oltre al crescente forte indebitamento, che da sola non sembra più in grado di sostenere. Da qui, la necessità, auspicata nel testo, di un ripensamento complessivo delle attuali politiche globali, per ridurre, o debellare del tutto, la povertà nel mondo, a favore di un concreto investimento economico e culturale dei Paesi  maggiormente avanzati nei confronti di quelli più poveri.

 

Se vuoi cambiare le cose devi andare dove le cose bisogna cambiarle
una conversazione con padre Vilson Groh_

Il panorama dalla terrazza della chiesa di San Giovanni Battista e San Benedetto Abate (recentemente realizzata su un buon progetto dell’architetto Angelo Campo), sembra offrire una immagine non molto diversa da quella che solo qualche mese fa (con una delegazione di docenti e studenti del Dipartimento di Architettura di Pescara) abbiamo lasciato in Brasile sul “Morro” di Florianopolis. Anche qui, a Pescara, la città si dispone sui dislivelli dei colli senza seguire alcuna regola se non quella di un informe agglomerato che segue (talvolta maldestramente) l’inerpicarsi delle stradine di accesso.
Incontriamo padre Vilson nella grande sala messa a disposizione dalla parrocchia, e ci disponiamo intorno a lui per una breve conversazione sul tema delle favelas sudamericane e sulla necessità di esplorare possibili soluzioni per queste forme spontanee di residenze di necessità. Investire sui poveri, è questo il motto di padre Vilson, provare a portare la bellezza nelle favelas per combattere la povertà e l’indigenza. La bellezza come nuova forma di speranza per la costruzione di un mondo nuovo. La speranza come fondamento dell’esperienza di vita che, sin dall’inizio, lui per primo a scelto di condividere andando a vivere nel cuore del problema.
Parte da lontano il suo ragionamento, risalendo all’importanza del Concilio Vaticano II ed alla Conferenza di Medellin in Colombia (del 1961) a partire dalla quale è cambiata la sensibilità della Chiesa verso le sofferenze delle comunità insediate nelle favelas. Il documento, continua padre Vilson, centra la sua attenzione sul rapporto con la giustizia, come punto di forza per combattere le dittature dei paesi dell’America Latina. In questa direzione, le comunità di base hanno avuto un ruolo determinante, nella battaglia per la riforma agraria, per il diritto al lavoro, alla casa ed allo formazione, fino alla grande rivoluzione della Chiesa contro la dittatura, nel 1972, a partire dall’assassinio di alcuni preti di frontiera.
Nel 1978 un ulteriore documento della Chiesa affronta le questioni dell’impoverimento. “….quando offro da mangiare ai poveri mi chiamano Santo e quando chiedo come mai questa gente si è impoverita mi chiamano comunista”.
È in questi anni che la chiesa apre alla politica con una serrata lotta di base a favore dei senza terra, dei senza lavoro, dei senza tetto … un grande fermento e, soprattutto, una comunanza di opinioni. La teologia della liberazione come occasione di riscatto per le comunità degli indigeni, delle donne, dei bambini di strada.
La Chiesa diventa davvero determinante per l’America Latina, con la forza della testimonianza e della condivisione.
Il bene deve tornare ad essere un bene comune all’interno di una relazione più stretta tra fede e vita tra comunità e politica. “Si può essere cittadini solo se si ha accesso alla città e si ha accesso alla città solo sé se ne condividono le ricchezze, in termini di distribuzione del lavoro, di estensione dei trasporti pubblici, di solidarietà sociale…. “
Questa posizione delle comunità ecclesiali di base ha creato non pochi problemi alla Chiesa centrale che oggi, invece, si sono del tutto ribaltati con l’elezione di Papa Francesco, che ha riversato tutta la sua esperienza di vita tra i più poveri dell’Argentina. Un uomo che parla direttamente al cuore della gente. “Quanto più un gesto è umano tanto più è divino e mai il contrario”.  A partire dai più poveri quindi, dagli indifesi, dai bambini, dall’educazione, dalla scuola, per alimentare la speranza di una nuova forma di vita. “Costruire un meccanismo di controllo per una nuova politica sociale” ribadisce padre Vilson. Un controllo capace di estendere il proprio lavoro anche alla pubblica amministrazione. “Il lavoro per il diritto alla educazione, dalle scuole di base all’università, è un investimento sul futuro e noi come comunità dobbiamo dimostrare che questo è un investimento redditizio, che anche il governo centrale può fare contro l’illusione sciagurata del reclutamento al narcotraffico. Bisogna mostrare alle comunità che esiste un’altra strada. Con il governo Lula e con Dilma Rousseff siamo passati dalla miseria alla povertà, ma il problema dei paesi latinoamericani è la distanza eccessiva tra la concentrazione della ricchezza e la diffusione della povertà.”
A proposito del coinvolgimento dei poteri forti, qualcuno gli chiede se la chiesa latino-americana non finisca per fare confusione tra fede e politica. Padre Vilson risponde che ormai la teologia della liberazione è sotto gli occhi di tutti e soprattutto nella quotidianità della testimonianza del lavoro con i più poveri “…. qualcosa sta cambiando – dice -  e la teologia della liberazione è come brace sotto la cenere, bisogna tenerla in vita soffiandoci continuamente sopra”. Altri evidenziano anche analogie con l’esperienza marxista e lui prontamente sottolinea come la chiesa, in questo caso, mostri l’esperimento più diretto sul quale applicare le teorie marxiste “… io credo che non sia la chiesa ad ispirarsi al marxismo ma forse il contrario, è il marxismo ad avere un fondamento molto radicato nella teologia cristiana. L’importanza del nuovo Papa ed il ruolo della chiesa dei popoli, fa si che l’America Latina  e l’Africa diventino i luoghi centrali della esplicitazione dell’esperienza cristiana. Bisogna restituire forza alla Chiesa di base, quella impegnata direttamente sul campo, tutti i gironi, in una battaglia continua contro la povertà, la disuguaglianza sociale e la lotta alle chimere del narcotraffico.”
Quella di vivere nelle favelas è una vocazione che padre Vilson coltivava già durante gli studi di teologia, un anno in Cattedrale e poi via nel cuore del problema … dove le cose bisogna cambiarle. L’esperienza della dittatura vissuta in tutta la sua crudezza sulla propria pelle (è nato nel 1954) gli restituirà la convinzione di lavorare direttamente con il pubblico a fianco del pubblico a supporto del pubblico. “A chi mi da soldi, e talvolta sono tanti, gli dico di portarli e gestirli direttamente con me e con la gente che ne ha bisogno, per vedere direttamente l’esito di quelle offerte e per spiegargli che il riscatto dalle proprie fortune e dal benessere accumulato non si risolve con la semplice consegna di una somma di denaro”. Come dice spesso  “la ricchezza è una sorta di mutuo sociale che prima o poi dobbiamo restituire e magari con i dovuti interessi”.
Bisognerebbe provare a cambiare la prospettiva, ribaltare il punto di vista, dalla città informale a quella formale, la comunità deve conquistare la convinzione di potersi trasformare in un nuovo capitale sociale, lavorando sulla collettività (intesa come insieme di persone), la sfida è sempre legata ad una utopia, provare ad invertire la rotta ed a globalizzare la solidarietà.
“Un sogno che si sogna da soli è solo un sogno, un sogno che si sogna insieme può trasformare la realtà”.