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World Urban Forum. Mario Tancredi
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Si è concluso il 7° World Urban Forum di UN Habitat, dal titolo “Equità urbana nello sviluppo. Città per la vita”. Numeri da record: 20.000 presenze da tutto il mondo, e oltre 600 attività parallele tra seminario, workshop, conferenze e mostre.
La città di Medellin dal 5 all'11 aprile 2014, ne è stata uno scenario appropriato, per le drammatiche cifre che ancora la condannano come una delle metropoli latinoamericane in cui le differenze sociali sono più marcate e profonde, e al tempo stesso la propongono come modello per le suggestive soluzioni sperimentate.

Il Forum, tra le affermazioni entusiastiche del sindaco di Medellin e le immagini di Joan Clos, presidente di UN-HABITAT immortalato mentre spalma calcestruzzo e mattoni per una casetta tra le borgate informali di Medellin, lascia grandi interrogativi più che certezze. Il messaggio mediatico non è mai gratuito. Nella difficoltà di trovare parole conclusive e definitive, meglio affidarsi alla concretezza delle esperienze.
Rimane allora l'interrogativo dopo la grande abbuffata di eventi e contenuti durati una settimana tra ritmi e squisita allegria tropicale della gente di questa Medellin, dai tratti amabili e turbolenti insieme. Come può essere questo nostro stare insieme, nelle immense distese urbane che contraddistinguono questo secolo XXI? Ormai oltre quattro miliardi di persone vivono in condizioni che definiamo "urbane". Ma facciamo un'immensa fatica a capire cosa questo significhi. Tutti insieme, ma soli. Condividiamo gli stessi spazi, ma scontiamo diversi livelli di accessibilità alle opportunità, ai diritti e ai doveri che tale condivisione comporta.
Viviamo in condizioni urbane, e forse questo è il punto, dato che vivere in centri urbani, non vuol dire vivere in città, così come vivere in condizioni urbane non vuol dire essere cittadini, e qui sta l’altro punto: non lo siamo più. Cittadino è parola densa di significati, ormai sconosciuti. Probabilmente dovremmo definirci abitanti di spazi urbani, definiti  tecnicamente per l’accesso a determinati beni e servizi. Siamo collegati in rete ad acqua, elettricità e gas, frequentiamo scuole e andiamo al lavoro con mezzi di trasporto intermodali, accediamo a manifestazioni sportive e culturali. Possiamo permetterci acquisti e una vita di consumi, così come ci è consentito l’accesso a coperture sociali e servizi. Siamo insomma coinvolti in una serie di diritti come di doveri. Ma queste condizioni non necessariamente sono riferibili al concetto di “città”. Tanti di noi le vivono spostandosi tra un centro e l’altro, magari vivono in un insediamento residenziale incluso in un municipio dove pagano le tasse per i rifiuti e per il consumo di acqua e luce, ma per il lavoro, il commercio e lo svago, “usano” altri centri ( dunque consumano lì altri beni, e lì gettano altri rifiuti). Insomma, a quale comunità davvero apparteniamo, di quale cittadinanza ci sentiamo parte?
Non tutti ovviamente, godono dello stesso livello di accesso a questo genere di vita, pur abitando in questi stessi spazi urbani. E qui sta un altro punto. Molti, sempre più troppi, vivono a metà la condizione di “cittadinanza”. Magari perché stranieri, per questioni di genere, o perché non in regola per qualche disposizione di legge, sono deprivati dei diritti di salute o educazione. Sono masse anonime di popolazione, che pure partecipano a loro modo a una vita urbana: dormono in stazioni o in alloggi popolari, per mangiare e rifornirsi di vestiario non si rivolgono al centro commerciale, ma alla mensa della Caritas o al discount a basso costo; assistono agli spettacoli cinematografici o allo stadio, ma dal modesto divano di casa; o nel peggiore dei casi, dalle panchine della strada. Masse di popolazione che non accedono ad assistenza sanitaria o alle reti del benessere (acqua, gas e luce: o magari sì, ma illegalmente). E dentro queste popolazioni, altre masse di giovani che non frequentano più nemmeno gli spazi tradizionali dell’educazione. Una generazione che si prepara a prendere le redini del mondo, non avendo avuto le istruzioni per farlo. Uno dei problemi trattati al foro in modo incisivo, e di cui non si ha purtroppo una coscienza adeguata.
Le giornate di Medellin hanno mostrato la forbice che taglia in due le nostre condizioni di vita urbana, evidenziando le troppe contraddizioni che accompagnano un habitat schizofrenico, con le sue regole e i suoi comportamenti, i suoi rischi e le sue tensioni. E che ci restituiscono, nelle proposte e nei tentativi di soluzione, un mondo che sembra viaggiare a due velocità: marketing urbano, grandi operazioni immobiliari, infrastrutture e grattacieli da una parte; e depressione, prevaricazione dei diritti, alienamento, violenza, disagio dall’altra. Nel paradosso di una comune appartenenza ad un territorio ma non alle stesse regole, abitiamo gli spessi spazi, ma non condividiamo gli stesse regole, gli stessi diritti, lo stesso patto che ci fa cittadini, abitanti di una comunità di valori, regole, diritti e doveri condivisi.
I vari seminari e conferenze hanno sollevato la necessità di nuovi paradigmi e nuovi significati da dare a questo nostro stare insieme. Se ne è parlato tra giovani, tra istituzioni governative, tra accademici e stelle del rock, tra premi Nobel e leader indigeni: la globalizzazione delle parole, delle culture, delle esperienze. Il foro è anche questo; un gran tour tra suggestioni, buone pratiche, sensibilità e modi di declinare le problematiche.
Rimane la sensazione di una ricerca ancora da sviluppare, di una nuova definizione di questo habitat che fatichiamo a chiamare ancora città.
Una situazione questa, che ricorda un altro momento vissuto nella storia delle trasformazioni urbane, nel pieno della rivoluzione industriale. La prima volta in cui masse di popolazione sono accorse in città, stravolgendone i ritmi e i modi, così come le relazioni con il resto del territorio, costruito per secoli nel delicato equilibrio tra centri abitati e campagna. Del profondo cambio di allora se n’era accorto Ildefonso Cerdà, ingegnere e autore dell’ampliamento di Barcellona nel 1864. Nella sua Teoria generale dell’urbanizzazione che accompagnava l’ambizioso e innovativo piano per la capitale catalana, affermava la necessità di “parole nuove per esprimere idee nuove”, ribattezzando quel “mare magnum fatto di persone, cose, interessi di ogni genere che sembrano funzionare in maniera indipendente” con il termine “urbs”, evocandone la radice etimologica latina di “solco”, con cui i romani circoscrivevano quell’area che avrebbe contenuto la civitas, la città dei cittadini.
Urbanizzare, nel senso di contenere raggruppamenti di costruzioni. Cerdà avvertiva l’impossibilità di nominare ancora città queste nuove configurazioni spaziali ormai senza limiti. Non chiamare più città significava sancire la scomparsa della comunità di cittadini. Ora c’era il territorio, i “centri urbani” e con essi, il raggruppamento di case, fabbriche, infrastrutture. Di lì, il centro urbano si sarebbe espanso a macchia d’olio, inglobando nel suo sistema tutto il resto. Urbanizzando la popolazione senza farne di essa cittadinanza.  

La location di Medellin
Da Barcellona, a Medellin. Le recenti trasformazioni con biblioteche e scuole firmate dalle prestigiose griffe dell’architettura locale, sono sempre più ricorrenti nelle patinate riviste di architettura. Capire cosa sia successo in questa città è un po’ capire le ragioni di questo stesso foro, nato nei contenuti in simbiosi con le sue esperienze e contraddizioni. Di Medellin sono noti gli immaginari che ne hanno stigmatizzato la sua storia recente, fatta di narcotraffico e di una violenza che per le dimensioni può essere associata ad una vera e propria guerra urbana. Una serie di circostanze, e tra queste il mutato clima politico con l’amministrazione del sindaco Sergio Faajrdo dal 2003 al 2008, ha segnato un punto di svolta decisivo. Se violenza e disuguaglianza sociale erano le piaghe in cui affondava la città, la soluzione aveva -secondo il sindaco- una soluzione unica e semplice: l’educazione. Il corollario sarebbe stato un programma politico concentrato nella costruzione di scuole e biblioteche, intese come veri e propri centri di aggregazione sociale, che per tale ragione andavano inserite nelle zone più povere e marginali, adempiendo con una architettura di qualità ad un “debito storico accumulato” nei confronti delle comunità più disagiate. Su questi contenuti per anni si è costruito un vero e proprio programma strategico per la città, che ha in tal modo declinato l’urbanistica come “sociale” e “pedagogica”.
Un percorso difficile, anche contradditorio, ma con indubbi successi: la drastica riduzione della violenza, l’accesso di popolazione giovane a sistemi educativi, una cultura “cittadina” che si esprime nel profondo rispetto dei suoi spazi più rappresentativi: le piazze, i luoghi della convivenza, i sistemi di trasporto che garantiscono accessibilità –e dunque uguaglianza di opzioni e possibilità- anche alle classi più disagiate e marginali. Episodi ed esperienze, quelle di Medellin, che le hanno meritato riconoscimento e attenzione internazionale, fino al premio dello scorso ottobre come città più innovatrice del pianeta, strappato a città come New York, e che vede confermato il suo status di città-laboratorio proprio grazie al World Urban Forum di UN-Habitat.
Medellin e il foro, in simbiosi. La città si è impegnata con energia per dare all’evento internazionale una propria caratterizzazione simbolica. Al punto che più delle conclusioni formali con i rituali documenti finali, il vero epilogo rimane la “Carta de Medellin”: un programma che ripercorre per tappe le vicende urbanistiche della città, e i cui punti di forza sono l’innovazione, la cultura, l’inclusione e il benessere, in un’accezione della pianificazione e dell’urbanistica come partecipativa, pedagogica, sociale. Il comporsi di un “foro alternativo”, parallelo a quello ufficiale ma contrapposto polemicamente, per  denunciare la mancata partecipazione delle comunità disagiate ai processi che hanno reso famosa Medellin, è la prova più evidente del difficile percorso che la città vive, in un balletto vorticoso di progetti innovativi e tensioni sociali ancora vive.

Ma cosa ha lasciato o lanciato, questo Foro?
La variegata esposizione di esperienze e iniziative, delle conferenze e dei seminari hanno amplificato la necessità di parole nuove, per definire nuove modalità di convivenza. Tra le enunciazioni sostanzialmente allineate in una denuncia che non si allontanava dal politicamente corretto, tra esperienze illuminanti e polemiche striscianti, ad alcuni tale evento è sembrato un “circo”; per altri (migliaia di studenti) è stato una sorta di turismo accademico, che si snodava tra i folclorici stand delle nazioni africane e quegli asettici e raffinati dei paesi europei, tra quelli delle prestigiose università internazionali e quelli delle sperimentazioni delle tecnologie a basso costo delle varie ong e dei vari sud del mondo, per concludersi poi nei locali e nei ritmi della movida della allegra e tropicale Medellin notturna.
Per altri ancora, e forse questa la parte più interessante, il foro è stato lo scenario adatto non tanto per avere risposte, quanto per fare domande appropriate: come facilitare l’accesso al suolo per la costruzione di case per i più disagiati? Come favorire la dislocazione dei beni e dei servizi pubblici tra le diverse zone della città, e perché i servizi più impattanti vanno sempre nelle zone residenziali più popolari? Quale il ruolo dei centri storici nelle nuove compagini territoriali? Come favorire l’accesso ai beni comuni? Come definire una nuova rete e provvedimenti legislativi in grado di favorire il senso di appartenenza (forse dovremmo dire di cittadinanza) a gruppi diversi di popolazione, molto più liquidi e mobili, alle stesse condizioni di vita, agli stessi servizi?
Difficile in tal senso, tracciare un bilancio sull’esito dei lavori. Occorre riflettere sulle parole più pronunciate, sui termini più ricorrenti e troppo spesso riciclati in documenti in cui sono evoluti in un gergo che rischia, nel mare magnum della globalizzazione, di rimanere alla superficie delle problematiche. I significati delle parole e delle espressioni più ricorrenti sono ancora tutti da esplorare, nelle loro possibili declinazioni alle scale locali e nei differenti contesti.
Cerdà, l’artefice del piano per la Barcellona che ha inaugurato la modernità, proponendo il termine “urbanistica” per definire questo nostro stare insieme in un determinato territorio, non intendeva affatto riferirsi a un significato esclusivamente tecnico. Intravedeva nel passaggio storico da una società rurale a quella industriale un nuovo passo dell’umanità verso una responsabilità co-creativa dello stesso spazio terrestre. “Replete terram”, Riempite la terra: l’evocazione biblica era per l’ingegnere catalano una sorta di fondamento costitutivo, della sua “teoria” dell’urbanizzazione. Una benedizione in grado di conferire all’uomo una (sacra) responsabilità nella creazione dell’habitat, nei suoi modi e misure con le quali con-figurare la moderna società industriale. Può essere questa la chiave di lettura degli argomenti suscitati da un foro che si appella ancora una volta a tale necessità, amplificata dalle nuove sfide di carattere sociale e ambientale. Ancora una volta, una domanda di responsabilità.

 

Le parole del Foro

Resilienza. Ormai sembra essere il termine magico, col quale identificare e risolvere le contraddizioni urbane. “E’ l’umore sociale per mezzo del quale si possono incontrare le risposte alle perturbazioni generate da qualsiasi conflitto”, si legge in una nota redazionale del quotidiano Colombiano El Tiempo, per spiegare il termine al grande pubblico. La Fondazione Rockfeller ha individuato cento città resilienti nel mondo, tra le quali –ovviamente- non manca Medellin.  Saranno premiate con finanziamenti di “miliardi”, secondo la sua presidentessa Judith Rodin, anch’essa coinvolta nel circo del Foro. Difficile capire in cosa consista la resilienza, anche se la stessa presidentessa accenna alla formulazione di un vero e proprio “indice di resilienza”, incentrato su variabili economiche, sociali e infrastrutturali. Tutta da scoprire la novità, al di là della nuova chiave di interpretazione associata a un termine derivato da un processo biologico e naturale.

Creatività e innovazione. Il guru delle città creative, Richard Florida -docente presso l’università di Toronto e New York-, ha ribadito l’importanza delle città come luogo in cui avvengono i processi di innovazione più importanti per l’umanità. Un’innovazione che passerebbe per quello che “gli abitanti veramente chiedono: felicità e benessere”. Secondo Florida, la ricetta è altrettanto semplice: la capacità di creare industria a partire dalle “gioiellerie di famiglia”: i beni culturali presenti, spesso sottovalutati, gli spazi pubblici, i centri storici capaci di generare un radicamento nel luogo da parte degli stessi abitanti. Se poi gli abitanti sono diversi per genere, condizione sociale e provenienza, tanto meglio. Parlare di argomenti che sono stati applicati a Vienna, Londra, Seattle e Vancouver, in una città tra le più diseguali del pianeta, provoca interessanti spunti di riflessione.

Disugualianza e diritti. Argomenti principali del foro, hanno ricevuto le suggestioni più interessanti dalle esperienze dell’emisfero sud. Quella proposta da Carolina Toha Morales, sindaco di Santiago del Cile, è apparsa particolarmente interessante. Ha ribadito infatti la necessità di un Indice relativo di salute sociale (un progetto maturato in America latina già da tempo), capace di valutare la vulnerabilità dei soggetti a rischio così come la capacità finanziaria per le coperture di servizi. Questo contributo ha sollevato grandi questioni che s’incontrano nelle città latinoamericane: il centro storico come luogo delle identità e non spazio dello svago; la questione dell’appartenenza territoriale delle comunità e del loro riconoscimento, specie nella ripartizione delle infrastrutture e servizi; la necessità di nuovi codici normativi mirati a intercettare quell’informalità che è costitutiva delle metropoli latinoamericane, e che si estende dal commercio alle case, alle potenzialità di lavoro e di rappresentanza politica e istituzionale di comunità marginate.
 
Per-formare, tras-formare. Se l’informalità ha avuto nel tempo una sua declinazione prevalente negli aspetti fisici, è emersa da varie esperienze un’accezione più antropologica e culturale. Questa è riferita soprattutto alle dinamiche e agli spazi di dialogo tra istituzioni e attori che non hanno un riconoscimento formale, ma che divengono accreditati per la loro capacità di interagire a nome delle comunità di cui rappresentano diritti e forme organizzative, che trasgrediscono i tradizionali sistemi istituzionali.
Il riconoscimento di questi attori diviene decisivo per comprendere i bisogni e per impostare le nuove politiche urbane nei quartieri marginali e informali, ribaltando i procedimenti tradizionali a favore di un pieno riconoscimento dei protagonisti dell’urbanizzazione irregolare, attribuendo loro un ruolo fondamentale nella costruzione delle strategie d’intervento.

Inter-discipline. L’esperienza di Urbam. C’è chi a Medellin ha cercato di capitalizzare il patrimonio di conoscenze e riflessioni, anche critiche, di questa decennale esperienza, facendone un punto di partenza per ulteriori approfondimenti della ricerca e delle politiche d’intervento. L’università privata EAFIT, che comprende una facoltà di scienze e una d’economia, ha lavorato molto sul tema del suo inserimento nella città, tentando di individuare nuovi percorsi e temi di ricerca. Si è resa conto che Medellin dispone di uno dei sistemi di biodiversità più ricchi del continente. E che al tempo stesso il sistema urbano è uno dei più esposti al rischio. Ha così creato un centro ricerche di Studi ambientali e Urbani, anche in assenza di una facoltà di Architettura e Urbanistica. Il centro raccoglie e integra economisti e geologi, pianificatori ed esperti di paesaggi. Elabora ricerche approfondite sulla città, sulle criticità e sulle possibili strategie a partire dalla consolidata esperienza dell’ultimo decennio, garantita dalla figura dell’architetto Alejandro Echeverry, che è stato la mente del “miracolo” di Medellin sotto il mandato del sindaco Fajardo, e che poi è diventato direttore dello stesso centro Urbam.
Oggi Urbam elabora contenuti, dibattiti, un pensiero critico sulle scelte strategiche della città, anche attraverso un master rivolto ad amministratori pubblici e professionisti. I suoi partener istituzionali e accademici sono a New York come a Città del Capo, in Australia e in Europa, assicurando un respiro mondiale allo studio delle problematiche locali. Il difficile equilibrio tra lo sviluppo necessario e il rischio ambientale, rimane il perno delle attività e delle proposte del centro ricerche.

1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture 1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture 1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture 1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture 1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture 1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture 1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture 1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture 1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture 1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture 1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture 1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture 1_ Tempo interno. Foto di Michel Legendre/ Canadian Centre for Architecture