Editoriale

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Un nuovo riformismo urbanistico. È possibile?
Alberto ClementiPDF




Eravamo rimasti alla malintesa contrapposizione tra il PRG di Roma di Campos Venuti e il coevo Piano di Milano. L’uno si candidava a diventare il campione del riformismo urbanistico, accompagnato in modo interessato dalla macchina propagandistica dell’INU di allora; l’altro invece costituiva il modello contrapposto, il piano disegnato dal mercato, il quale aveva mandato esplicito di imporre priorità e scelte localizzative all’amministrazione comunale, defraudandola di fatto della propria capacità di decidere a nome dell’interesse di tutti i cittadini.
Adesso, circa trenta anni dopo, le cose appaiono molto cambiate. Roma non ha retto al suo ruolo di modello imposto per l’urbanistica riformista. A distanza di tempo ci appare sempre più chiaro che la sua esperienza è stata pompata fin troppo, e alla prova dei fatti si è esaurita rapidamente senza lasciare alcun seguito significativo, travolta dalle numerose critiche che l’hanno investita, in gran parte riconducibili alla eccessiva distanza tra intenzioni e capacità d’azione effettiva da parte della amministrazione comunale, in una città che non mai offerto una qualche continuità delle politiche nonostante il passaggio da Rutelli a Veltroni. Il suo riformismo urbanistico è sembrato soprattutto un dispositivo retorico alimentato dalla forte personalità di Campos Venuti, con scarsa capacità d’incidere sulle dinamiche reali della trasformazione urbana e meno ancora sulle pratiche dell’amministrazione e del potente sistema di interessi che hanno continuato a ruotare intorno al blocco fondiario e immobiliare romano. Un riformismo di bandiera che ha alimentato le accanite resistenze ideologiche degli urbanisti ortodossi di ieri e di oggi, incapaci di prendere atto della impraticabilità delle soluzioni convenzionali imposte da un’urbanistica rigida e assertiva, incurante dei vincoli di bilancio in condizioni di marcato deficit pubblico. Che ha fatto prendere atto in modo tangibile della irriducibile refrattarietà della cultura tradizionale ad ogni cambiamento, e della sua atavica propensione alla conservazione anche quando si rivela controproducente.
Milano per contro ha perfezionato nel tempo il modello trainato dal mercato e costruito d’intesa con gli investitori, grazie anche al contributo scientifico di Luigi Mazza che ha teorizzato in modo convincente la inevitabile discrezionalità delle scelte progettuali. Come abbiamo visto in EWT 20, il forte sviluppo della sua attrattività per gli investimenti immobiliari (l’unica città in Italia insieme forse a Roma in grado di attirare investimenti internazionali) può essere verosimilmente interpretato come espressione del discutibile accordo strategico tra Comune e Ferrovie dello Stato. Su questo sfondo si sono innestate le molte altre occasioni di valorizzazione di aree dismesse o abbandonate che hanno fatto diventare questa città un importante laboratorio internazionale all’insegna del primato del mercato immobiliare.  
Forse non è corretto contrapporre il velleitarismo dell’urbanistica romana  all’inesorabile coerenza (peraltro programmaticamente opaca e rinunciataria sotto il profilo del government pubblico) dell’urbanistica milanese. Forse in Italia c’è ancora spazio per un’urbanistica in grado di mediare positivamente tra interessi pubblici, processi di mercato, diritti alla città e sistemi di tutela dell’ambiente e del paesaggio. Forse dobbiamo avere il coraggio di abbandonare il caso sovraesposto di Roma, del resto oggi alle prese con una crisi involutiva sempre più preoccupante, e rivolgerci ad altre città, per esempio Bologna, a lungo percepita in Italia come città-campione del riformismo possibile, ben governata e aperta all’innovazione continua del proprio sistema di sviluppo, sempre più indispensabile per far fronte alle drammatiche sfide che stanno incalzando le città in un’epoca di radicali trasformazioni dell’economia, della società, dell’ambiente e della stessa cultura urbanistica.
Con questa curiosità ci siamo rivolti a Patrizia Gabellini, già apprezzato assessore all’urbanistica di questa città, per organizzare una riflessione comune sulle sorti attuali del riformismo urbanistico a Bologna. Bologna in questa fase, come bene evidenziato nel contributo della Orioli, è impegnata in una pluralità di progetti a diversa scala che vorrebbero mettere a sistema le trasformazioni della città per il 2030, senza ambire peraltro alla definizione di un modello che potrebbe diventare fuorviante. Allo stesso tempo abbiamo chiesto a Piercarlo Palermo, il più lucido ed accreditato interprete delle possibilità e limiti del riformismo urbanistico enunciato da Campos Venuti, di inquadrare le vicende di Bologna nella prospettiva dell’intero Paese, per capire se e quanto questo modello è davvero generalizzabile sul piano nazionale.  
E’ emersa qualche sorpresa non da poco. Il Sindaco Lepore infatti, nella importante intervista rilasciata alla Gabellini per questo numero di EWT, afferma che il riformismo (come noto apparso controcorrente già nella formazione del PRG di Bologna del 1970, quando peraltro il PCI era ancora ideologicamente contrario all’uso di questa categoria politica) non è più alla base dell’orizzonte politico di Bologna, la quale preferisce adesso qualificarsi piuttosto come città del “progressismo” in una prospettiva europea.
Pur riconoscendo i meriti dell’urbanistica riformista degli anni ’60, quando in particolare l’acquisizione pubblica di aree era servita ad abbattere la rendita fondiaria selezionando gli interventi dei privati e al tempo stesso aveva consentito di avviare una politica avanzata del welfare urbano, l’intenzione attuale è ancora di cambiare le cose come voleva il riformismo, ma stavolta scegliendo in modo più esplicito chi si vuole rappresentare. Adesso per dare un nome alla nuova stagione si dovrà muovere dalle ambizioni dichiarate dall'amministrazione: “amministrazione progressista quindi urbanistica progressista.  I due obiettivi non sono molto distanti. Allora si chiamava urbanistica riformista perché nel dibattito politico culturale del tempo quel termine aveva un significato. Oggi dire riformista per alcuni è il sol dell'avvenire, per altri non è né carne né pesce”. Ne consegue la scelta di candidarsi esplicitamente fin dalla presentazione del programma elettorale a città del progressismo, “capace di proporre progetti innovativi da realizzare e, laddove non si hanno deleghe per poter realizzare, combattere per far sì che si aprano nuove prospettive a livello nazionale”.
In questa prospettiva viene proposta da Lepore tra l’altro la resurrezione del progressismo, un concetto che in politica era stato colpito dalla damnatio memoriae, ed il suo rilancio con un contenuto positivo, venendo a capo in particolare di quel pensiero debole che ha inquinato l’azione dei partiti della sinistra, e che non ha saputo impedire  per esempio la crescita esplosiva delle ineguaglianze sociali ed individuali. Al tempo stesso Lepore enuncia l’accantonamento del riformismo, che non appare più un valore indiscutibile e comprensibile da tutti.
La svolta di Bologna è importante e ci induce a riflettere criticamente sul significato attuale del riformismo in urbanistica. Come afferma Palermo, il modello dell’urbanistica riformista era stato messo a punto con chiarezza nel 1995 da Campos, il quale esprimeva già da allora un bisogno irrinunciabile di flessibilità, strategia e sostegno allo sviluppo rispetto alla tradizione del progetto moderno. Con quattro priorità da perseguire: il ruolo determinante della pianificazione urbanistica; il rilancio della pianificazione d’area vasta; l’articolazione del piano locale in componenti funzionali  (regolative, strutturali, operative) tra loro strettamente integrate; la perequazione come strumento principale per l’attuazione.
Contro questa impostazione irrituale sono ben note le argomentazioni ripetute fino all’ossessione dagli irriducibili custodi della ortodossia convenzionale: dalla inaccettabilità del metodo della urbanistica contrattata introdotto allora a Roma in contrapposizione a quello della pianificazione tradizionale assai più garantista, che arrivava a rifiutare pregiudizialmente perfino i Programmi complessi promossi dal ministero dei LL.PP. d’intesa con i Comuni; al rifiuto del metodo della compensazione e della perequazione per risarcire parzialmente i proprietari del forte taglio delle volumetrie ereditate dal piano precedente; all’accantonamento unilaterale dello strumento oneroso dell’esproprio e alla eccessiva flessibilità delle previsioni del piano accompagnate dal ricorso agli Accordi di Programma, che lascerebbe troppo spazio alla discrezionalità dell’amministrazione. Ma in definitiva, come ha osservato Federico Oliva nel suo commento a “Roma disfatta” di De Lucia- Erbani (Roma 2016), nel rigettare le critiche spesso poco informate del libro, viene riconosciuto che il torto maggiore di questo esperimento imperfetto di urbanistica riformista a Roma è stato di aver accettato l’impalcatura legislativa esistente, “ a legislazione invariata”, ciò che ha impedito di fatto la redazione di un piano realmente efficace.
Più interessante forse è la diagnosi di Marcelloni, a lungo direttore dell’Ufficio del Piano nella fase di impostazione del nuovo PRG ( adottato nel 2003, sindaco Veltroni). Marcelloni non parla di “modello riformista”. Piuttosto muove dalla considerazione di Roma metafora della modernità incompiuta, con il nuovo Piano che avrebbe dovuto realizzare soprattutto due obiettivi: modernizzare la città esistente e gestire la città contemporanea. Avendo ben chiaro che il ritardo della modernità ha investito in primo luogo la mobilità collettiva, l’apparato pubblico, la struttura produttiva. Il ritardo ha avuto conseguenze disastrose, tra cui il diffondersi della cultura della illegalità e della cultura di non governo. Di qui le scelte del nuovo PRG prima di tutto a favore della modernizzazione: la cura del ferro, la valorizzazione del sistema storico-ambientale come connettivo tra le parti della città, il decentramento dell’arcipelago urbano finalizzato alla riqualificazione delle periferie e la organizzazione di una nuova struttura tecnico-amministrativa più efficiente e flessibile. Marcelloni si rende conto lucidamente che dalla fine degli anni ’70 le condizioni sono cambiate, e nessuno è più disposto a concedere all’urbanistica il potere che chiede. Nasce così la istanza di un riformismo di fatto che segna il passaggio concettuale dal “piano urbanistico” al “progetto della città”, in una congiuntura che vede ancora per qualche tempo il piano necessario, anche se in via di accantonamento dentro l’insieme delle politiche localizzate per lo sviluppo. Denunciando comunque la inutilità della pianificazione urbanistica come pratica separata e settoriale, in quanto questa disciplina deve essere necessariamente coinvolta nel governo urbano.
In fondo, la posizione di Marcelloni non è troppo dissimile da quella enunciata più tardi da Raffaele Laudani, assessore all’urbanistica di Bologna intervistato da Patrizia Gabellini per EWT. In questo caso l’urbanistica è vista come un contributo alle politiche dell’innovazione “agganciate alle persone”, che fa ritrovare a Bologna la sua specificità di lungo periodo. Il “progressismo” piuttosto che il riformismo è allora nelle cose da fare, invece che nel metodo. In particolare nel portare avanti i due progetti-pilastro dell’attuale amministrazione, la “Città della conoscenza” e la ”Impronta verde” che mettono al centro del futuro la nuova mobilità e la qualità degli spazi pubblici, scaturiti in fondo dalle tradizioni della città e dalle sue migliori propensioni già esercitate nel passato, rilanciate in una prospettiva innovativa. L’urbanistica attuale però non riguarda più soltanto il disegno della città o del sistema delle regole del gioco, ma lo spazio stesso delle politiche urbane, ciò che consente di tenere insieme le diverse politiche assicurando la loro coerenza rispetto agli obiettivi di fondo dello sviluppo. Assumendo comunque come condizione determinante la continuità delle amministrazioni che si succedono nel tempo.
Così la storia di Bologna può tornare ad essere quella delle innovazioni che possono anche diventare un “modello” per gli altri, se in particolare la città riesce ad “estrarre valore pubblico dalle interazioni pubbliche private, senza bloccare le interazioni private, ma facendo in modo che queste producano valore pubblico”. In questa prospettiva le trasformazioni urbane, non sono più predisposte dall’alto come a Roma, ma diventano espressione del “protagonismo attivo dell’amministrazione comunale, che le innesca facendo poi un patto con i privati per portarle avanti”. Anche per far fronte alla precarietà degli scenari contemporanei diventa dunque ammissibile rinegoziare continuamente le condizioni operative, in una logica di governance continua. L’urbanistica può così fare a meno del suo carattere conformativo assunto a priori come previsto peraltro nella nuova legge regionale, perché diventa uno strumento determinante nel governo delle trasformazioni  urbane. La distinzione tra progressismo e riformismo si attenua, nel loro convergere comune in una nuova dimensione strategica che in definitiva allontana sempre più dall’urbanistica “ortodossa”, difesa disperatamente ad oltranza dagli urbanisti nostalgici.
Si riscopre attraverso questa via anche l’attualità delle riflessioni di Piercarlo Palermo, che ha provato più volte a ripensare “ le responsabilità e le prospettive dell’urbanistica dopo la crisi oggettiva del movimento riformista, della quale non si può tacere dopo quasi trent’anni di buone intenzioni, che hanno prodotto però esiti modesti rispetto alle attese”. Esaurita nel tempo la impostazione di Campos Venuti il quale meglio di ogni altro aveva saputo farsi interprete delle istanze di realismo, pragmatismo e possibilismo che caratterizzano un’urbanistica responsabile e fattiva nella accezione di Palermo, è venuto il tempo di interrogarsi sulle prospettive possibili per il dopo, oltre il riformismo camposiano.
L’esperienza della nuova legge urbanistica della Regione Emilia Romagna sembra aver imboccato una strada fertile, anche se ancora, a sei anni di distanza, non sono ancora evidenti i suoi frutti. Si riafferma coraggiosamente il principio di discrezionalità delle scelte rinviando ad “Accordi attuativi” come spazio per elaborare in modo condiviso tra pubblico e privato decisioni più circostanziate, chiedendo poi alla politica e all’amministrazione di misurarsi concretamente con sfide per le quali la cultura e la tecnica sembrano risultare insufficienti. Riscoprendo per altra via la necessità di far confluire urbanistica, progetti urbani e politiche nel comune alveo di un governo politico del mutamento, capace di durare abbastanza facendosi carico responsabilmente della efficacia e della praticabilità delle intenzioni assunte.
A queste condizioni un nuovo riformismo urbanistico sembra possibile, come ritiene peraltro anche EcoWebTown. Resta però irrisolta la questione della qualità morfologica dei progetti urbani, che finora ha lasciato molto insoddisfatti, a Roma come a Milano.  Per la verità non è affatto detto che l’urbanistica sappia dare contributi significativi al riguardo, non sono poi molte le esperienze di successo su cui contare.  Ma su questo tema decisivo dovremo ritornare più compiutamente nei prossimi numeri, non dando affatto per scontato che la costruzione degli “Accordi attuativi” sia di per sé garanzia di qualità degli assetti programmati. C’è apprendere dal passato, e più ancora da escogitare nuove modalità di controllo dei progetti urbani sotto il profilo della forma generata, e soprattutto c’è da inventare nuove relazioni tra disegno urbanistico e architettura urbana, con la speranza che possano indurre nuove capacità di qualificare positivamente i processi di place making, che continuano a rimanere il cuore dell’urbanistica e dell’architettura della città.