La città artistica

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Assenze Specifiche
Massimiliano Scuderi
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Un passo da Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes può essere lo spunto per riflettere sulle pratiche artistiche degli ultimi decenni, in particolare sul rapporto tra gli artisti contemporanei e i luoghi. Dice Barthes nel capitolo sull'assenza: manipolare l'assenza significa far durar questo momento, ritardare il più a lungo possibile l'istante in cui l'altro potrebbe, dall'assenza, piombare bruscamente nella morte1. Gli artisti oggi stanno indagando esattamente in questo modo lo spazio urbano, cogliendo di un luogo una dimensione fondamentale ovvero la durata delle cose e con essa tutti quegli elementi che definiscono uno spazio. Dagli anni Sessanta dello scorso secolo ad oggi, gli artisti hanno cercato di dare contorno a quanto ha la tendenza a dissolversi. Come dice il premio Nobel Peter Handke dimostrando fedeltà a determinati luoghi, un lago, una piazza2.
Questa indagine prende le mosse dal gesto di rinominare un dato contesto, atto primario nel processo di risignificazione di un luogo. Intitolare qualcosa o un sito significa innanzitutto riconoscerne delle qualità specifiche, ma anche renderlo un campo sul quale esercitare un’attività, creando un’aspettativa3. Ovvero rinominare un luogo è un’azione specifica che libera la trasformazione del contesto nell’elemento che supporta l’azione. Il linguaggio non crea le cose, bensì le rivela. Ovvero l’uomo crea il suo territorio dando un nome alle “cose” che ci sono4.
Basti pensare al Monument of Passaic di Robert Smithson. Un giorno, esattamente il sabato 30 Settembre del 1967, l’autore del famoso Spiral jetty5 salì sull’autobus numero 30 della Inter-City Transportation Co. per dirigersi a Passaic, una cittadina del New Jersey: l'autobus è passato sul primo monumento. Ho tirato il cicalino e sono sceso all'angolo tra Union Avenue e River Drive. Il monumento era un ponte che collegava la contea di Bergen con la contea di Passaic. Lungo le rive del fiume Passaic c'erano molti monumenti minori come spalle di cemento che sostenevano una nuova autostrada in fase di costruzione. Mentre camminavo verso nord lungo ciò che restava di River Drive, ho visto un monumento in mezzo al fiume: era una torre di pompaggio con un lungo tubo attaccato. Il tubo era sostenuto in parte da una serie di pontoni, mentre il resto si estendeva per circa tre blocchi lungo la riva del fiume fino a scomparire nel terreno. Si potevano sentire i detriti tintinnare nell'acqua che passava attraverso il grande tubo6.
Smithson continua la sua passeggiata in quei luoghi, individuando nello stagno altri sei grandi tubi zampillanti, come ciminiere di fumo liquido. Queste strutture costituivano una fontana monumentale. Novello Odisseo attraversava quel paesaggio azzerato, come egli stesso lo definisce, che conteneva le rovine di qualcosa che alla fine sarebbe stata realizzata. Rivelava così delle periferie la dimensione epica e al contempo futuribile. Passaic era per Smithson un territorio pieno di “buchi” rispetto alla densa New York City e quei buchi, in un certo senso, erano monumentali luoghi vacanti che definivano il tracciato della memoria di un insieme abbandonato di futuri.7
Come sottolinea Miwon Kwon8 l’artista con l’espressione delle site specificity intendeva radicare la sua presenza ad un luogo attraverso le leggi della fisica, anche se il suo intervento fosse destinato a scomparire, ad essere effimero. L’arte così definita assumeva il luogo come realtà tangibile, prendendone in considerazione le qualità e le caratteristiche topografiche: lunghezza, altezza, spessore, forma, proporzioni, illuminazione ecc. Ma il luogo e la sua morfologia non furono gli unici elementi che condizionarono la produzione artistica di quegli anni. Nel 1970 Daniel Buren affermava: Che lo spazio nel quale l’opera è esposta si imprima su di essa e la segni, qualunque cosa essa sia, o che l’opera stessa sia direttamente – consapevolmente o meno- per Il Museo, qualunque opera presentata in quel contesto ricade nell’illusione dell’autosufficienza – o dell’idealismo – se non esamina esplicitamente l’influenza che riceve dal contesto 9. Questa affermazione introduce la dimensione legata alle istituzioni convenzionali di un contesto specifico che entrano evidentemente in gioco nella costruzione o decostruzione del luogo attraverso l’opera d’arte. Ciò definisce inevitabilmente e imprescindibilmente un carattere della produzione artistica di quegli anni: l’opera è esclusivamente politica.
Negli ultimi decenni invece gli artisti, anche stimolati dagli stravolgimenti geopolitici, sposano una dimensione comunitaria del fare, soprattutto negli spazi pubblici. Pur tenendo in considerazione le esperienze formali pregresse e pur continuando a riflettere su questioni puramente linguistiche, l’impegno di questi artisti è mosso da un approccio etico del fare. A differenza dei loro illustri predecessori degli anni Settanta, che in contrapposizione al sistema mercantile dell’arte, si ritiravano nel deserto in un isolamento ascetico, questi artisti operano in modo spesso collegiale, costruendo nuovo senso e attraverso una nuova sensibilità che permette loro di riconfigurare lo spazio pubblico in modo diverso. La storia delle opere d’arte contemporanea, concepite per piazze e luoghi pubblici, hanno una storia travagliata ed emblematica che merita di essere brevemente ricordata. Lo spazio pubblico diventa sempre più il luogo dei conflitti sociali, aprendo un ampio scenario di contrasti di natura etica, ancorché estetici, tra la figura dell’artista e le comunità locali. Come si era già potuto comprendere con il noto caso di Richard Serra a New York. Nei primi anni Ottanta in America fu commissionata e finanziata dal Governo un’opera allo scultore Richard Serra da collocare nella Federal Plaza di New York. L’opera, intitolata Tilted Arc, un muro di acciaio dolce alto tre metri e mezzo e lungo trentacinque, divenne subito oggetto di controversie fin dai primi istanti successivi alla sua installazione nella piazza. Un’ assemblea di cittadini ottenne nell’85 la rimozione e lo spostamento dell’opera, sebbene Serra si fosse opposto fermamente affermando, a difesa del progetto, che la sua scultura fosse site - specific ovvero progettata in modo specifico per quella piazza e che quindi fosse impossibile pensare di collocarla in un luogo diverso. La vicenda finì miseramente con lo smantellamento della scultura, sebbene Richard Serra fosse già un grande artista e la sua opera riconosciuta internazionalmente. Dal ’97 la Federal Plaza è diventata uno spazio pubblico caratterizzato dall’arredo urbano di Martha Schwarz con panchine e collinette verdi, senza traccia delle proteste degli anni precedenti. Stessa sorte per l’opera di uno dei padri della Pop Art americana, Claes Oldemburg. Nel 2000 installò la scultura “Ago, filo e nodo” di fronte alla stazione Cadorna di Milano. Da subito l’opera si rivelò inadatta al contesto, sollevando controversie e proteste. Inadatta perché mal digerita dai milanesi che trovarono alquanto banale e riduttivo il riferimento alla città della moda o chi, come l’architetto Italo Rota, ne mise in discussione le dimensioni, reputandole eccessivamente ridotte rispetto al piazzale.
In questo senso, la vera ricucitura allo strappo tra intenzione creativa e comunità locali venne concepita all’inizio degli anni Novanta da un protocollo internazionale, nato in Francia dalle menti del curatore Xavier Douroux e dell’artista Francois Herz, partiti nella redazione del documento da alcune osservazioni e necessità sul tema dell’uso e della natura dell’arte e degli spazi pubblici contemporanei. Il protocollo dei Nouveaux Commanditaires costituì l’elemento di rottura all’interno della tradizionale visione privatistica e individualistica degli anni Ottanta, in quanto pose al centro dell’attenzione una modalità comunitaria per cui le responsabilità venissero condivise nei progetti pubblici tra tutti gli stake holders: comunità locali, mediatori culturali, enti, artisti, committenti, curatori e imprese. E attraverso questo protocollo vennero realizzate più di 200 interventi non solo in Francia, come la stupenda Salle de departs a Garches, opera di Ettore Spalletti, ma anche in altri Paesi compresa l’America e l’Italia. Si era assodato che la questione dell’arte, nella sua relazione con lo spazio pubblico, fosse innanzitutto una questione etica tesa a risolvere, in modo fecondo e generoso, l’interazione inefficace tra creazione, cultura e società10.
È doveroso ricordare altre esperienze simili partite dal principio di differenziazione del pubblico come Il Culture in Action di Mary Jane Jacob a Chicago. Tutti gli artisti erano attivisti impegnati in collaborazioni e nessuno era conosciuto come fabbricante di oggetti tout-court. A parte i massi di Suzanne Lacy, tutti i progetti erano realizzati e svolti in quartieri popolari o poveri. L'iniziativa venne criticata da alcuni per il suo approccio superficiale a problemi complessi e per toccare questioni che sarebbero state meglio affrontate dai servizi sociali più che da un intervento artistico. Altri hanno salutato l’iniziativa come uno dei più importanti eventi di arte pubblica nel Nord America del XX secolo. Ma come recentemente sottolineato dalla stessa curatrice Mary Jane Jacob, riferendosi al concetto di arte democratica di John Dewey11, l’esperienza in sé messa in campo da questi processi creativi, inducono l’individuo a non essere passivo rispetto all’ambiente in cui si trova. Questo aspetto negli ultimi decenni apre una dimensione condivisa di esperienze in cui l’artista si fa interprete di un desiderio comunitario, teso al recupero e alla risignificazione di luoghi destinati a dissolversi, a scomparire nell’oblio. Questo processo cognitivo commuta i luoghi in ‘territori’, ovvero in aree di esercizio di un dominio, sociopolitico e culturale.
La capacità di osservare la realtà con uno sguardo altro - Foucault l’avrebbe definito ‘laterale’12 - permette agli artisti di riconfigurare i siti proprio nel tentativo di risolvere quella sospensione temporale in cui versano alcuni luoghi abbandonati delle città, spesso definiti in modo opportunistico “vuoti urbani”.
L’artista spagnola Lara Almarcegui per molti anni ha profilato un terreno dettagliato di pratica. Le sue procedure ed esperienze creano l’opportunità di definire un nuovo campo interessante tra l’ambito legato all’estetica dell’abbandono e altre discipline. Nel 1997, ad Aragón, in Spagna, Almarcegui decise di restaurare una stazione ferroviaria che era stata abbandonata per vent'anni nella città di Fuentes del Ebro su sua iniziativa e rischio (Hotel Fuentes de Ebro, stazione ferroviaria Fuentes de Ebro, vicino a Saragozza, 1997). Ha aperto la stazione come albergo gratuito, nonostante la sua posizione vicino alla città di Saragozza non sembrasse suggerire un grande potenziale per il turismo. Non c'era niente di speciale nella proprietà tranne il suo carattere generico. L’abbandono di queste strutture spesso è connesso con i cambiamenti urbanistici e dei sistemi di trasporto. Il fatto che questa stazione, una volta restaurata, sia stata trasformata in un luogo di aggregazione per la città è davvero un effetto secondario del transfert di valore nel compito che Almarcegui si è posta, che era semplicemente quello di sottolineare l'indifferenza con cui questa obsolescenza aveva preso posto.
Nei suoi progetti, l'artista, che vive a Rotterdam, esamina i processi di trasformazione urbana indotti dai cambiamenti politici, sociali ed economici. Dalla metà degli anni '90 studia elementi urbani che normalmente non sono al centro dell'attenzione: terre desolate, materiali da costruzione, elementi invisibili. Lara Almarcegui lavora spesso all'aperto, raccogliendo dati storici, geografici, ecologici e sociologici sulle aree libere dello spazio urbano che presto saranno cambiate, documentandole e intervistando esperti. Una terra desolata ha caratteristiche molto diverse dall'altra. Cerco di presentare ogni sito nel modo più dettagliato possibile, ingrandendo molto, cerco di presentare l'unicità di ogni sito13.
Con una sensibilità molto vicina a quella dell’artista spagnola l’italiano Luca Vitone, che inizia la sua carriera artistica intorno alla metà degli anni Ottanta, focalizzando il suo interesse sull’esperienza dei luoghi in relazione alla memoria e alle identità culturali. La sua ricerca indaga i processi attraverso i quali i luoghi assumono valori diversi nel tempo, scardinando le accezioni comuni e le consuete norme classificatorie. Basti pensare ai primi interventi intitolati “Carte Atopiche”, itinerari personali dei quali non vengono restituite le informazioni cartografiche, ma dove vengono solamente evidenziati in blu i ricordi dell’autore.

D’altronde già Ugo la Pietra in “Riappropriazione della città”, film presentato nel ’77 al Centre Pompidou di Parigi, cercava di dimostrare il modo di riappropriarsi della città con operazioni comportamentali e mentali. Un atteggiamento che riconduce il suo lavoro ad una matrice situazionista in cui si possono risentire gli echi di certe teorie di eversione creativa nella quotidianità come quelle espresse da Michael De Certau14. Interventi che mirano ad una riappropriazione dello spazio urbano come di uno spazio abitativo personale. Già nella seconda metà degli anni Sessanta, come egli stesso dichiara in un’intervista, vari artisti cominciano a intervenire fuori dal sistema dell’arte. È allora che si aprono orizzonti di tipo operativo che nascono attraverso riflessioni su una teoria del lavoro dell’artista nel sociale al di fuori delle istituzioni e delle gallerie…Si tentava di agire all’interno del sociale cercando gli strumenti per fare emergere le contraddizioni15.
Sulle contraddizioni si basano anche alcuni interventi dell’artista brasiliana Renata Lucas. Attraverso un metodo di stratificazione, prova ad intersecare i suoi interventi con le planimetrie urbane, ridefinendo il loro rapporto ed il modo in cui le nuove costruzioni si integrano nella città, percorrendo i luoghi e osservandone la morfologia. Invitata ad esporre alla KW di Berlino, scopre casualmente dei percorsi alternativi che, attraverso i cortili degli edifici, permettono facilmente di raggiungere qualsiasi luogo. Quindi i cortili divennero il punto di partenza del suo intervento, le relazioni fra di essi, il modo in cui influenzavano le relazioni sociali, tra vicini di casa ad esempio. Una riflessione su come lo spazio determini il nostro modo di interagire con gli altri: Tornando all’esperienza di Berlino, guardando la mappa e i possibili percorsi (attraverso i cortili) ho realizzato quanto fosse bello tutto ciò, il poter attraversare questi spazi, vedendo dietro di sé le case, i loro interni, come la cucina, la vita quotidiana.  Una situazione in cui vedi l’interno e l’esterno, lo spazio pubblico e quello privato.  Così ho pensato di dover trattare questo tema, caratteristico della città, importante per capire i rapporti sociali. Eppure, qui si pone il problema della privatizzazione degli spazi pubblici16 . L’intervento mira ad inserire alcune modifiche nell’assetto urbano, come per i marciapiedi, mettendo in relazione l’interno con l’esterno degli spazi, piccoli slittamenti nella semantica degli spazi, scavando buchi, tagliando muri, slittando piani, determinando un nuovo paesaggio dove sembra che nulla sia fisso, ma in continuo mutamento.

Questi pochi casi, che potrebbero essere arricchiti da numerosi esempi, ci permettono di riflettere sul rapporto dell’artista con le cose e con i luoghi, e sulla volontà di opporsi alla logica dell’oblio. L’artista contemporaneo – una coordinata temporale che racchiude in questa occasione la produzione culturale compresa tra la seconda metà dello scorso secolo e i giorni nostri - è investito dall’onda lunga delle avanguardie storiche del Novecento. Come già nel 1967 scriveva Robert Klein17, gli attacchi delle avanguardie non erano dirette verso l’arte, ma sembravano esclusivamente voler colpire ciò che dell’arte ne aveva sempre definito la consistenza ovvero l’opera. Questo presupposto, ovvero l’abolizione dell’opera, esige uno scatto che va oltre l’arte, non realizzabile in un’opera, ma nella vita stessa. Ed ecco che oggi l’arte si manifesta sotto forma di un’attività senz’opera. I luoghi, e le cose che ne definiscono i contrappunti e i caratteri specifici, vengono investiti di nuovi valori e ricoperti di nuovi aloni di senso da parte degli artisti, che metodicamente riescono, secondo soggettive posizioni e tecniche personali, a ridare significato a ciò che tenderebbe a deperire e dismettere la propria funzione semantica. Mutuando le parole di Remo Bodei sulla vita delle cose, l’artista interverrebbe per coglierne il senso, anche se in forma residuale, sospendendo l’ovvietà, scoprendo dei luoghi e di tutti gli elementi che lo compongono la capacità di erogare un surplus di significati che neppure l’assuefazione, l’ignoranza, l’incuria, la frequente denutrizione intellettuale e affettiva degli individui riescono del tutto ad eliminare18.




Note

1 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 1979.

2 P. Handke, Canto alla durata, Einaudi, Torino, 1995.

3 J. Sartre, L’Essere e il Nulla, in R.Krauss, L’arte nell’era postmediale, Postmedia, Milano, 2005.

4 B. Chatwin, Le vie dei canti, Adelphi, Milano, 1987.

5 Spiral Jetty è un’opera realizzata nel 1970 da Robert Smithson sulle sponde del Great Salt Lake in Utah.   Letteralmente un molo a spirale di ghiaia, rocce,  terra, fango, acqua e cristalli di sale.

6  R. Smithson, the Monuments of Passaic, Artforum, New York, 1967.

7 Ibid.

8 M. Kwon, Un luogo dopo un altro, Postmedia, Milano, 2020.

9 Ibid.

10  X.Douroux (a cura di), Faire art comme on fait societé-Le nouveaux commanditaires, Les presses du Réel, Dijon, 2013.

11 M.J. Jacob, Dewey for Artists, The University of Chicago Press, Chicago, 2018.

12 Si fa riferimento al cogito moderno che si sostanzia per Foucault tra pensiero auto-riflessivo e il non pensiero.
Cfr. in M. Foucault, Le parole e le cose, un’archeologia delle scienze umane, BUR, Milano, 2007 e in M. Foucault, Il pensiero del fuori, SE, Milano, 1998.

13 L. Almarcegui in Lara Almarcegui, projects 1995-2010, Archive book, Berlin, 2011.

14 Cfr. M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavori, Roma, 2010.

15 Intervista di M. Gandini a Ugo La Pietra su AlfaBeta2 del 26 Agosto 2018.

16 Intervista rilasciata da Renata Lucas a Massimiliano Scuderi nell’Aprile del 2020.

17 G. Agamben, Creazione e Anarchia, Piccola Biblioteca Neri Pozzi, Vicenza, 2017.

18 R. Bodei, La vita delle cose, Laterza, Roma, 2009.

















































































































































































































































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