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L’Aggere Serviano e la Stazione Termini
Sui resti di antiche mura una nuova porta di città
Angela Fiorelli
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Mura Serviane, Stazione Termini, mura urbane, progettazione architettonica, patrimonio.
Servian Wall, Termini Station, urban wall, architectural design, heritage.

Abstract:

Il contributo qui proposto, sintesi della ricerca personalmente svolta all’interno del Dipartimento di Architettura e Progetto (DiAP) di Sapienza, indaga la stretta relazione tra l’antico tracciato delle Mura Serviane di Roma e la conformazione della città postunitaria con particolare attenzione al complesso caso della costruzione della Stazione di Termini. La tesi della ricerca dimostra che le mura regie, pur se andate in gran parte perdute, restano ancora un segno ben leggibile nella struttura della città e la loro presenza-assenza ne ha condizionato e disegnato l’immagine attraversando secoli di storia. Partendo dall’analisi morfologica urbana del manufatto rispetto al tessuto edilizio contemporaneo della capitale, lo studio approfondisce il tema del frammento e della traccia come “struttura latente” che forma e conforma la città. 




Il potere di un segno: le Mura Serviane e la forma urbis

“Servio aggiunse alle altre colline l'Esquilino e il Viminale, facili ad attaccare dall'esterno: per questo fu scavata una fossa profonda e rigettata la terra verso l'interno, formando così un terrapieno di sei stadi - 1110 m. di lunghezza - sul margine interno della fossa. Su questo innalzarono un muro con torri dalla porta Collina fino alla Esquilina. Al centro del terrapieno è una terza porta, che ha lo stesso nome del Viminale” 1 ,così Strabone nel I secolo a.C. ci dà la descrizione più dettagliata a noi pervenuta dell’antico perimetro murato serviano in corrispondenza di quel tratto di cui ancora oggi emergono gli antichi resti presso la Stazione Termini. Lo storico greco infatti riporta l’edificazione del muro prospiciente Porta Viminalis, illustrando la sezione muraria nei suoi elementi tipologico-costruttivi ideata per compensare la sfavorevole topografia della città nord-orientale: i colli Viminale ed Esquilino, infatti, con la loro sommità pianeggiante, avevano assoluta necessità di un sistema di difesa artificiale ed è per questo motivo che in questo settore della città fu eretta una fortificazione anticipata da un ampio fossato e rinforzata all'interno da un terrapieno di riporto, denominato agger (Cifani 2012) (fig. 1).
Quello che Strabone ci dice e che solo in parte risulta rispondente a verità è l’attribuzione della cinta militare a Servio Tullio, quando oggi è comunemente condiviso che il re edificò un primo perimetro fortificato, ma che quello di cui la tradizione letteraria narra è in realtà di epoca repubblicana. Va precisato infatti che, senza tener conto della cinta romulea dell’VIII secolo a. C. sulla quale vi sono ancora fondati dubbi dell’esistenza fisica, la prima cerchia muraria di Roma fu probabilmente quella regia del VI secolo a. C. di cui anche Tito Livio ci parla2: un circuito di circa 7 Km con 11 porte che per la prima volta racchiudeva al suo interno l'abitato della città e che venne realizzato interamente in pietra (tufo granulare grigio del Palatino, anche detto cappellaccio). La datazione è verificata anche dalla tecnica costruttiva utilizzata, per analogia con fortificazioni di altre città dell'Etruria e del Lazio come Ardea, Lavinio o l'acropoli di Veio. L’anello murario, invece, noi oggi solo in parte pervenuto, è frutto di un importante rifacimento di epoca repubblicana databile intorno al IV sec. a.C. sotto il governo dei censori Spurio Servilio Prisco e Quinto Clelio Siculo.

Il nuovo circuito difensivo era lungo 11 km, racchiudeva una superficie di circa 426 ettari ed era dotato di 15 porte, risultando uno dei più ampi sistemi difensivi dell’area del Mediterraneo. Sempre Tito Livio riporta che fu costruito a partire dal 378 a.C. in circa 25 anni3. Questa datazione è inoltre confermata da due concomitanti eventi: l’invasione della città da parte dei Galli, che saccheggiarono Roma nel 390 a.C. e che rendeva necessario un rapido consolidamento della cinta muraria, e la conquista di Veio del 396 a.C., come testimonia l’abbondante impiego del Saxo Quadrato di tufo giallo litoide di Grotta Oscura (Fabbri 2007). Le mura repubblicane avevano un’altezza di 10 metri circa e uno spessore di 4 metri; il fossato esterno, profondo circa 17 metri e largo fino a 36 metri, fu ampliato e modificato più volte durante il lunghissimo periodo di utilizzo delle Mura.
Questo sistema difensivo era circondato dal pomerio, un’area sacra agli dei in cui ogni opera dell’uomo era interdetta: in essa era fatto assoluto divieto di edificare, di seppellire i defunti, di combattere, di coltivare. Come anche il mito di Romolo ci ricorda, nell’atto di fondazione dell’Urbe, il solco a terra dell’aratro segna il pomoerium, il perimetro. Per i latini l’atto di fondazione di una città è un rito sacro e il limite di essa è dettato dalla volontà degli dei e non dall’arbitrio umano. D’altra parte, come afferma Gurvitch, “l’idea di città […] è quella di un ordine soprannaturale del mondo.  La concezione cosmico-ieratica della città implica naturalmente un nesso molto stretto tra città e divinità, secondo un rapporto localizzato e biunivoco” (Sica,1977). Il pomerionon è dunque una linea, ma è uno spazio contenuto tra due margini, un’area che concentra in sé le forze negative allontanandole dalla città, per questo non edificabile e affidato alla protezione divina.
Dopo circa due secoli dalla costruzione della cintura militare di Roma, questa legge inviolabile è però costretta a cedere all’inevitabile sviluppo di una città egemone che cresce esponenzialmente ai suoi successi e nel tempo anche questa superficie diviene terreno utile per l’espansione urbana. La cinta muraria, alla stessa maniera, conserva tracce di restauri sino al II secolo a. C. finché la grande città imperiale, non temendo più nemici, non necessita più di una funzione difensiva e di delimitazione dell'abitato. Così nei decenni centrali del I secolo a.C. le mura “serviane” vennero in parte distrutte e in alcuni tratti inglobate nel tessuto edilizio come sostegno a nuove costruzioni.
Ciononostante l’antico anello fortificato resta un segno fortemente percepito nella città di Roma come un importante limite urbano: lo confermano le grandi direttrici della città, che da esso sono generate, la stretta relazione tra il perimetro serviano e il successivo aureliano, l’intersezione delle vie consolari e la correlazione tra le porte repubblicane e imperiali, nonché la concentrazione di nuovi edifici che sorgono in prossimità dei tratti fortificati. Le mura serviane hanno continuato per secoli a rappresentare una testimonianza storico-ideologica per la capitale del mondo latino: il reale confine della città fu considerato sempre il perimetro della Repubblica come ne è chiara prova la misurazione dei miliarii delle vie dell’Impero, riferite alle porte dell’anello serviano anche in età tardo-antica.
Dall’analisi comparata del sistema insediativo della Roma imperiale e dello sviluppo morfologico della città fino all’età contemporanea emerge una stretta correlazione tra il perimetro della forma urbis repubblicana e lo sviluppo del tessuto urbano nelle epoche successive.
Pertanto, sebbene l’antico circuito difensivo fosse andato in larga parte perduto, è affascinante leggere nel disegno della città come, anche nell’assenza, esso permane nel tempo quale segno fisico e ideale della forma urbis. Le antiche mura sono una traccia che resta a memoria dell’antico confine, anche dopo la costruzione del nuovo anello murario eretto da Aureliano nel 375 d.C (fig.2).

Appare evidente infatti che i grandi edifici pubblici costruiti in prossimità delle mura antiche si orientino in molti casi nella medesima direzione del circuito difensivo e ne determinino successivamente lo sviluppo degli isolati edilizi e della rete infrastrutturale della città extra moenia. Coerenti a questo processo di sviluppo sono il Circo Sallustiano, il Castro Pretorio, le Terme di Traiano, l’Auditorium di Mecenate all’Esquilino, il Tempio di Claudio al Celio, gli Horrea Galbana a Testaccio, il Circo Flaminio e il Portico di Ottavia al Ghetto, le Terme di Costantino e il Tempio di Serapide al Quirinale, ma persino l’orientamento dei Fori pare non faccia eccezione. E forse non è una supposizione infondata dato che Cesare mutò l’asse del Foro a lui dedicato, disposto non più secondo i punti cardinali come voleva il rituale sacro, ma secondo l’Atrium Libertatis dei Censori che sorgeva in prossimità delle mura serviane sul mons tra il Quirinale e il Campidoglio4. Nondimeno anche opere pubbliche di edificazione successiva al perimetro aureliano sembrano chiaramente tenere a mente il limite serviano come è il curioso caso delle Terme di Diocleziano.
Questo passaggio fondamentale nel processo trasformativo della città ci conduce ad una considerazione centrale: appare evidente che, pur se l’antica cinta serviana fosse stata distrutta o persa, la costruzione di edifici pubblici fuori scala rispetto al tessuto, che derivano dall’antico perimetro la propria dislocazione spaziale, ha inevitabilmente determinato l’edificazione della città futura, mutandone l’orditura e alterandone la regola generale. Anche la città postunitaria, figlia dei grandi piani ottocenteschi ne ricalca le orme. Lo si legge nel quartiere Esquilino in modo chiaro: ad esempio laddove la cinta serviana non è più visibile resta comunque il segno del Circo di Flora negli Horti di Sallustio che dal tracciato repubblicano deriva il suo orientamento. La parte di città che sulle tracce di esso è generata ne ricalca quindi l’andamento, ruotando di asse rispetto alla maglia ordinatrice del nuovo piano.
Da ciò possiamo asserire che ogni segno della città antica ci lascia una sua piccola eredità, un’impronta che un occhio attento sa cogliere nella pianta urbana e che permane anche nell’assenza, nel vuoto parlante che resta dalla sua remota esistenza ancora celata nel presente.
Il principio più efficace per capire la forma della città è questo: “[…] il criterio dominante deve essere la leggibilità del tessuto antico, quali che siano le vicende della sua liberazione da considerare archiviate” (Benevolo, 1985).


La città stratificata e la lettura delle tracce

Quello che rimane oggi delle Mura Sarviane è davvero esiguo. Un’analisi lungo l’antico tracciato ci permette di riconoscere alcuni lacerti che si nascondono tra le vie della città, di essi sono stati rilevati 42 frammenti mentre delle 15 porte ne restano solo tre: l’Esquilina, ora Arco di Galliano, la Coelimontana e la Sanqualis, nascosta all’interno di Palazzo Antonelli. 
Sul terreno pubblico insistono 11 tratti fuori terra di cui è stata fatta una mappatura con relativa descrizione tecnica e rilievo fotografico. L’indagine si concentra però non tanto sulle caratteristiche materiali, tipologiche e costruttive del manufatto, di cui gli archeologi hanno già prodotto una cospicua letteratura, ma piuttosto sul rapporto manufatto-città. Su come, cioè, l’oggetto “mura”, nella sua frammentaria presenza, si relaziona al tessuto edilizio esistente e come “sopravvive” nella nuove spazialità della città contemporanea. In base a ciò l’infrastruttura muraria è stata considerata come “architettura”, sia poiché spesso episodio puntuale e non lineare, sia perché intesa come materia architettonica della struttura costitutiva della città. A tale scopo sono state distinte cinque categorie tassonomiche che hanno permesso di classificare i lacerti in base allo stato di conservazione e alle operazioni di trasformazione architettonica e urbana del tracciato:

a. Le mura inglobate:
 architetture/basamento
 architetture/innesto
 architetture dentro architetture
b. Le mura come rovine:
 architetture decostruite
 architetture residuali

Nella categoria a. la classificazione è stata basata sul posizionamento del frammento all’interno della nuova architettura e quindi anche sulla funzione strutturale (o meno) che esso assume in relazione al corpo generale dell’edificio(fig.3). La presenza di elementi lapidei massivi ne ha caratterizzato un utilizzo basamentale per le costruzioni successive, ma questo varia nel tempo anche in base alla consapevolezza del valore patrimoniale del frammento. Ad esempio nell’interessante ex-palazzo Montecatini (1910) di Tullio Passarelli, poi terminato da Marcello Piacentini, il porticato ad angolo conserva come uno scrigno l’antico tracciato murario (fig.4). Caso non molto diverso d’altro canto è l’Auditorium di Mecenate (40 a.C.) che alla funzione strutturale del muro su Piazza Leopardi unisce lo sfoggio dell’antica infrastruttura difensiva.

Nella categoria b. sono stati invece presi in esame quegli elementi che sono svincolati da altre architetture e appaiono pertanto nel panorama urbano come rovine senza tempo che “galleggiano” sul piano della città senza un’evidente connessione con il contesto. In base alle dimensioni dei frammenti e alla compiutezza degli stessi si è distinto pertanto tra architetture decostruite, di cui è difficile ricomporre un’unità di insieme e architetture residuali che, sebbene percepibili nella finitezza della forma, appaiono come manufatti depositati nella città senza uno specifico significato.
Eppure, anche se apparentemente “debordanti” rispetto alla città moderna, la loro presenza ha condizionato e condiziona ancora notevolmente lo sviluppo dello spazio urbano. In tal senso offriamo all’indagine un caso, particolarmente complesso e molto dibattuto, che alla presenza delle mura serviane deve molto del suo disegno: il progetto della Stazione Termini.

La costruzione della Stazione Termini e l’aggere serviano

Nella seconda metà del XX secolo l’introduzione della rete ferrata nell’allora città pontificia comporta una totale revisione dell’assetto urbano ad est. La prima stazione fu realizzata in corrispondenza di Porta Maggiore fuori le mura aureliane, ma questa locazione non risultava comoda all’utilizzo poiché distante dal centro storico. Proprio per questo motivo, dopo nemmeno un decennio, viene proposto l’avvicinamento del polo ferroviario in un punto più strategico per la città. Tra le varie ipotesi per l’edificazione della nuova stazione, tra cui si annoverano l’area del Colosseo, Prati di Castello e Villa Borghese, la scelta ricade sul terreno prospiciente le Terme di Diocleziano, presso Villa Montalto Peretti all’Esquilino, nonostante la sfavorevole condizione orografica 5(Toschi, 1987). 
Dopo il piano cinquecentesco di Sisto V, l’Esquilino non aveva subito sostanziali alterazioni rimanendo un comparto cittadino a bassa densità abitativa. La costruzione della stazione Termini comportò una nuova espansione del quartiere, secondo un piano urbano che, a fronte della trasformazione dell’urbe a nuova Capitale, prevedeva in questa area la concentrazione di molti degli edifici ministeriali e amministrativi. Sull’Esquilino si andava realizzando l’immagine di una nuova Roma, moderna ed europea. Il modello internazionale però, in coerenza con le grandi trasformazioni dei piani dell’Ottocento, non temeva certo la presenza del passato e così la rigida scacchiera ordinatrice avanzava velocemente e in prossimità dei resti archeologici “veniva semplicemente interrotta senza alcun tentativo di integrare le antiche vestigia nel nuovo disegno urbano, accentuando così la loro estraneità dal contesto” (De Licio, 1995). Non fanno eccezione a questo criterio d’espansione le Terme di Diocleziano e i resti dell’aggere serviano presso la Stazione Termini, tratto murario maggiormente conservato di tutto il circuito difensivo.
La prima stazione di Salvatore Bianchi, in stile eclettico, era orientata verso la Basilica di Santa Maria Maggiore come fondale prospettico da Via Cavour, lasciandosi alle spalle le antiche rovine militari (fig. 5). Ben presto però la necessità di aumentare il numero dei binari e dei fabbricati merci annessi, portarono alla formulazione di un nuovo progetto redatto nel 1905 da Riccardo Bianchi che, proprio a causa della presenza delle mura serviane, prevedeva l’arretramento dei binari di 185 m. La proposta suggeriva la trasformazione del complesso della stazione in una galleria urbana e disegnava come ampliamento al primo edificio un blocco gemello, dedicato a servizi per le ferrovie, che avrebbe dovuto restituire un fronte unitario a Via Marsala e contenere al suo interno il muro serviano (fig. 6).

Questo progetto influenzerà tutte le proposte del trentennio successivo, secondo il principio spaziale per cui i resti archeologici sarebbero stati maggiormente valorizzati, o forse meno d’impiccio, se circoscritti all’interno di una nuova architettura. I progetti per Termini formulati da Roberto Narducci, Ferruccio Businari e Boccaletti (1924 ca.), pur nelle differenti varianti, seguono pedissequamente la proposta di un edificio-recinto per le fortificazioni antiche. Il secondo progetto di Bianchi (1925) si spinge oltre piegando il fronte del nuovo manufatto verso il muro romano. Il primo progetto di Mazzoni (1925), invece, avanza il corpo di fabbrica fino all’attuale Via Enrico de Nicola e disegna un fronte continuo attraverso l’introduzione di una lunga pensilina che lascia intravedere l’asse prospettico delle Mura contenute all’interno del nuovo complesso (Angeleri, G., Mariotti Bianchi, U.1983) (fig.7).

Certo è che si deve proprio alla presenza dei resti della cinta repubblicana, e quindi alla mancanza di sufficiente spazio per nuove linee ferroviarie, la formulazione delle ipotesi progettuali che seguirono. In questo senso le complesse vicende della Stazione Termini possono, e a mio avviso devono, essere rilette come innumerevoli tentativi di ricerca per una soluzione che preservasse la giacitura di una dormiente e ingombrante mole, memoriale della Roma dei Re. Un muro, quello serviano, che insiste su questo terreno e a cui, a torto o a ragione, ogni progetto è stato chiamato a porre dapprima rimedio, poi affascinata attenzione.


La nascita di una nuova piazza: il progetto di Angiolo Mazzoni del 1937

Il progetto che sancisce un punto di svolta per la Stazione Termini è senz’altro il progetto di Angiolo Mazzoni del 1937. L’architetto delle Ferrovie dello Stato intuisce che il tratto serviano deve essere restituito alla città a discapito della conservazione della stazione ottocentesca: un’altra stazione, capace di incarnare il moderno modo di far architettura che si stava in quegli anni affermando6, avrebbe dato un nuovo volto alla porta ferroviaria della città e il giusto respiro ai reperti archeologici, inoltre avrebbe più facilmente permesso il passaggio della linea metropolitana che veniva allora introdotta. L’edificio avrebbe dovuto avere un fronte continuo, arretrato rispetto alla giacitura del manufatto precedente e una pensilina di accesso ne avrebbe connotato la facciata: sono tutti gli elementi del concorso per il completamento del fabbricato viaggiatori del 1947 (C.I.F.I, 1947) ed è la nascita di Piazza dei Cinquecento (fig.8).

Come scrive Franco Purini in una nota per i suoi studi su Termini “Per la prima volta la Piazza dei Cinquecento non veniva più considerata come un insieme di spazi di risulta, come un insieme di tre piazze di difficile coordinamento spaziale, ma come una grande ‘esplanade’ capace di contenere ed esaltare la straordinaria presenza delle rovine” (De Licio,1995).
Le pressioni da parte del regime però condussero Mazzoni a mutare radicalmente il linguaggio architettonico del progetto, che assunse di lì a poco le sembianze dello stile celebrativo e propagandistico di quella nota “romanità” fascista: il prisma puro vetrato venne così sostituito da un fronte di colonne corinzie binate come si narra lo stesso Mussolini avesse suggerito (Nicoloso, 2011) (fig.10). Nonostante ciò il concetto urbano di un’opera fuori scala le cui dimensioni si rapportassero a quelle delle Terme e la creazione della grande piazza passò ugualmente.

La Stazione di Mazzoni fu solo in parte realizzata a causa dell’avvento del secondo conflitto mondiale. Nel 1942 le ali laterali erano da considerarsi pressoché terminate, ma la facciata era tutto da farsi. E sulle ceneri di una città sconfitta ma finalmente liberata verrà indetto il bando-concorso per il completamento del fabbricato viaggiatori del 1947 di cui noti sono gli esiti e che ci lascia in eredità un raro pezzo di architettura del secondo Novecento.
Ci limitiamo a citare le parole di De Licio che esprimono con chiarezza il fermento culturale di una nazione, e di un’Europa, che si appresta a ricostruire, insieme alla pace, l’architettura delle proprie città ferite: “In questo concorso si confrontarono le due anime più vitali della cultura architettonica moderna presenti nel nostro Paese in quegli anni. Quella rappresentata dai progetti di Montuori e Vitellozzi che accoglieva con grande fiducia e senza riserve i nuovi ideali architettonici e urbani elaborati in Europa nei primi decenni del secolo, e quella impersonata da Ridolfi e Quaroni, che faticosamente andava rielaborando i nuovi stilemi dell’architettura moderna in rapporto con la tradizione italiana” (De Licio 1995).
Il programma del concorso del 1947 ricalca l’esigenza di una piazza, quella dei Cinquecento, secondo le premesse mazzoniane di dieci anni prima e i frammenti dell’antica cinta serviana anche in questo caso tornano al centro della questione: il segno dell’aggere romano è un vettore urbano che come una freccia si scaglia contro il fronte continuo nel nuovo edificio producendo un inevitabile riverbero. L’ironico titolo del progetto vincitore “Servio Tullio prende il treno” ne conferma la dirompente interferenza. Che sia l’interruzione della pensilina in corrispondenza del muro (come nei progetti di Montuori e Vitellozzi) o l’alterazione dilatata della sequenza ritmica delle campate (proposta da Ridolfi, Quaroni e Fiorentino), la presenza dell’archeologia determina le forme della nuova architettura (fig.10). La stessa pensilina, detta il “dinosauro”, nella sua sezione organica protesa verso l’esterno ne disegna il profilo, affinché il prisma vetrato possa disvelarne la sagoma.
Si apriva così sulle vestigia delle antiche mura una nuova porta di città, portando a compimento un progetto durato un secolo esatto.
E della Piazza dei Cinquecento che ne è stato?
Una mancata programmazione vede avvicendarsi per più di cinquanta anni innumerevoli proposte per mano di illustri nomi del Novecento italiano senza giungere mai ad una determinazione operativa. Quello spazio pubblico che costituisce la prima immagine di Roma per un viaggiatore e che rappresenta il principale nodo di interscambio per la mobilità cittadina, è oggi l’emblema del noto non-luogo di cui ci parla Marc Augé (Augé 1992). Un vuoto urbano che stenta a trovare una sua compiutezza e identità nonostante abbia per quinte urbane le Terme di Diocleziano, Le Mura Serviane, il Palazzo Massimo e la Stazione Termini.
Il 24 dicembre 2020 esce il bando di concorso denominato “Riqualificazione urbanistica e funzionale del nodo Termini e di Piazza dei Cinquecento” indetto da Grandi Stazioni (Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane): dal nuovo disegno di questa piazza ci aspettiamo che ancora la mole serviana possa giocare il suo ruolo, fiduciosi che, come sempre, nel continuum metamorfico della città, i segni del passato imprimano, come fa la memoria, la loro impronta nella città del futuro. Merita pertanto concludere con il sentito augurio che sia questa l’occasione, e l’ultima chance, che le interminabili vicissitudini della stazione della Capitale possano finalmente avere un lieto fine. Servio Tullio prenderà davvero questo treno?



Note

1 Stabone, Geographia V, 3,7.
2 “Servio Tullio ampliò la città. Vi incluse altri due colli, il Quirinale e il Viminale, ampliò le Esquilie e qui pose la sua dimora per dare lustro al luogo […] cinse poi la città di vallo, fossato e mura; in tal modo allargò il pomerio” . Tito Livio, Ab urbe condita, libro I, 44.
3 Tito Livio, Ab urbe condita, libro V, 39. 
4 Di questa sella si ha inoltre traccia della sbancamento in un’incisione riportata sulla stessa Colonna Traiana: fu infatti Traiano a completarne lo scavo per erigere il proprio foro.
5 Si ricorda che questa parte di città risulta essere quella con altitudine maggiore. Non è escluso però che vi fosse una pressione di natura speculativa, poiché quei terreni appartenevano al Monsignor Saverio De Merode, ex ministro delle armi e dell’edilizia.
6 Angiolo Mazzoni fu sostenitore insieme a Marinetti del movimento futurista ed aveva seguito pochi anni prima con grande entusiasmo le vicende della costruzione della Stazione di Santa Maria Novella a Firenze su progetto del Gruppo Toscano, guidato da Giovanni Michelucci.




Riferimenti bibliografici

Angeleri, G., Mariotti Bianchi, U.(1983), Termini. Dalle Botteghe di Farfa al Dinosauro, Banca Nazionale delle Comunicazioni; Roma IT.
Augé, M. (1992), Non lieux, Introducion à une anthropologie de la surmodernité, Seuil, Parigi FR.
Benevolo, L. (1985), Roma. Studio per la sistemazione dell’area archeologica centrale, De Luca Editore, Roma, IT.
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Sica, P. (1970) L’immagine della città da Sparta a Las Vegas, Edizioni Laterza, Milano-Bari IT
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