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Mura e acqua come infrastrutture-guida dello spazio pubblico milanese
Renzo Riboldazzi
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Abstract:

Mura e acqua sono due tra i più significativi elementi della storia urbanistica di Milano che ne hanno condizionato la struttura e il paesaggio urbano. Non c’è cartografia storica che non ne evidenzi il ruolo nel disegno della città (Gambi e Gozzoli, 1982; Marabelli, 1990). E non c’è storia o rilettura critica dell’urbanistica milanese che non muova anche da lì o almeno che non intercetti questi temi (Reggiori, 1947; Mezzanotte e Bascapè, 1948; Grandi e Pracchi, 1980; Campos Venuti et al., 1986 Vercelloni, 1986, 1987, 1988; De Finetti, 2002; Oliva, 2002; Morandi, 2005; Boatti, 2007). Tuttavia, come talvolta accade in certi rapporti tra genitori e figli, Milano ha forse amato più la seconda che non le prime. Anche se nel secolo scorso l’ha sostanzialmente rinnegata – spiegheremo dopo il senso di questa affermazione – pare cioè aver nutrito maggiore predilezione per l’acqua – o, meglio, per il suo antico sistema di canali che disegnavano la città – piuttosto che per le sue mura. A partire da una estemporanea e frammentaria ricostruzione della genesi e delle trasformazioni di mura e acqua a Milano, in questo testo cercheremo di riflettere sul loro senso nella metropoli contemporanea. O, meglio, su come questi segni della storia ne connotano o meno il paesaggio e siano ancor oggi in grado di caratterizzarne e condizionarne gli usi, oltre che – questa è l’ipotesi che proveremo a verificare – indirizzarne trasformazioni e sviluppi in termini di costruzione/generazione di uno spazio pubblico aperto, ospitale e identitario (fig. 1).




Le mura di Milano: ciò che erano e ciò che resta

Partiamo delle mura che la città, nei secoli, ha costruito per scopi difensivi. Queste sono in gran parte scomparse ed entrano solo episodicamente nell’attuale iconografia urbana, tant’è che appaiono sbiadite nell’immaginario collettivo dei suoi cittadini e trascurate nei percorsi turistici. A differenza di altre città italiane dove sono tutt’uno con la loro immagine – pensiamo a Volterra, Como o Grosseto, per citarne alcune –, a Milano dove ne è rimasta traccia – a parte in corrispondenza delle antiche porte di cui diremo dopo – più che elemento identitario o caratterizzante del paesaggio, sono sostanzialmente ridotte a episodi isolati e il loro sedime, quando riconoscibile, tradotto per lo più in “canale di traffico”, per usare un’espressione desueta dell’urbanistica tecnica. In ogni caso, poco rappresentative o evocative di ciò che sono state. Quanto è giunto a noi è al massimo una curiosità storica, assorbita negli interstizi della città premoderna e moderna o perfino nascosta nei piani interrati dei palazzi, il più delle volte desemantizzata (fig. 2).
D’altra parte quella delle mura di Milano è una storia non solo di costruzioni ma anche e soprattutto di riadattamenti, ampliamenti, distruzioni, finanche rimozione della memoria. Di quelle romane – realizzate in più fasi e curiosamente evolutesi in un poligono irregolare – a parte tracce incastonate qua e là nel cuore della città – per esempio, di quelle realizzate tra l’età cesariana e quella augustea, in via Carrobbio, in via San Vito e in via del Lauro oppure, di quelle tardoromane, in via Manzoni, in via dell’Orso o in corso Magenta – talvolta riportate alla luce negli anni in cui si realizzava la metropolitana o si sostituivano gli edifici storici del centro con nuove costruzioni più grandi e moderne, ciò che ne resta non sempre è immediatamente visibile e riconoscibile. Eppure, forse anche più dei tracciati stradali – il cui andamento, pur non ricalcando la trama tipica della città romana, manteneva «viva e chiara l’influenza ellenistica, la disciplina ippodamea, purché non si voglia supporre osservava Giuseppe de Finetti – che i Romani intendessero questa come una norma rigida e povera, che li vincolasse sempre al reticolo rettangolare ed al perimetro quadrilatero»– hanno lasciato la loro impronta nella formadella città (De Finetti, 2002: 14) (fig. 3). Lo stesso dicasi per una seconda cinta muraria, di forma ellittica, punteggiata da sei porte e assai più ampia della precedente che venne realizzata a metà del XII secolo includendo l’edificazione spontanea cresciuta fuori le mura romane (Marabelli, 1990; Gambi e Gozzoli, 1982). Questa, infatti, era affiancata da un fossato che si trasformerà poi nella “Cerchia dei Navigli” il cui disegno è tra i più riconoscibili della forma urbis di Milano. In sostanza, «distruzioni e rifacimenti continui hanno lasciato tracce più consistenti nell’impianto urbano» di Milano (Morandi, 2005: 15). Pochi, invece, sono i resti concreti e, soprattutto, questi nel tempo sono stati manomessi e decontestualizzati. Per esempio, delle tre porte medievali che sono arrivate sino a noi – la pusterla di S. Ambrogio, la Porta Ticinese in prossimità delle colonne di S. Lorenzo e gli archi di Porta Nuova in fondo a via Manzoni –, «i restauri e la modifica dell’ambiente urbano hanno reso pressoché impossibile ricostruirne, anche solo nell’immaginazione, il senso originario, tanto da non risvegliare neppure la curiosità dei cittadini: quasi fossero dei corpi estranei capitati lì per caso» (Comolli, 1994: 19).
A metà del Cinquecento, quando la città era dominata dagli Spagnoli, si avvia la realizzazione di una cerchia di bastioni. Si trattava di un’opera imponente che si riannodava a nord-ovest della città intorno al Castello Sforzesco trasformato in cittadella fortificata. La nuova struttura difensiva era dotata di una decina di porte, collegate a quelle medievali, attorno a cui nel tempo sembra affermarsi una cultura dello spazio pubblico (Crippa e Zanzottera, 1999; Tettamanzi e Pifferi, 1989) (fig. 4). Nei primi anni del Settecento, con la dominazione austriaca, quando ormai le mura erano diventate un mezzo di difesa obsoleto, anche a Milano si fa strada, come nel resto d’Europa, l’idea di una trasformazione di queste in “passeggiata”. Dagli anni Ottanta del secolo e poi, progressivamente, nei primi decenni dell’Ottocento, si realizzano così – su progetto di Giuseppe Piermarini – i Giardini Pubblici con l’adattamento dei Bastioni a luogo di passeggio, tratti delle mura vengono trasformati in viali, le porte diventano dazi per la riscossione dei tributi sulle merci che entravano e uscivano dalla città e le mura intorno al Castello vengono abbattute (Reggiori, 1947; Garufi e Sicoli, 1997). Si tratta di «un’importante operazione urbana, che purtroppo non vide una conclusione complessiva» (Boatti, 2007: 28) tant’è che sul finire del secolo le mura spagnole apparivano in molti tratti ancora integre. Da quel momento, tuttavia, la situazione muta radicalmente. “Nel 1899 vengono demoliti 1500 metri di mura fra il Portello e Porta Vercellina e tra questa e San Vittore. Nel 1900 cadono circa 500 metri intorno a Porta Tenaglia. Nel 1911 scompaiono 1800 metri da Porta Vigentina a Porta Ticinese. E ancora: il tratto da Porta Venezia a Porta Vittoria è abbattuto nel 1919; il bastione di Porta Genova a ridosso della Darsena nel 1920; la lunetta di Porta Magenta nel 1921” (Riboldazzi, 2008: 91). I piani con cui la città in quel periodo provava a mettere ordine nelle trasformazioni urbane sono quello di Cesare Beruto, redatto e definitivamente approvato tra il 1884 e il 1889 (Reggiori, 1947; Rozzi et al., 1992) e quello di Angelo Pavia e Giovanni Masera del 1910-1912 (Reggiori, 1947; Tintori, 1985; Campos Venuti et al., 1986; Oliva, 2002). Il piano Beruto, in particolare, aveva tra i suoi obiettivi principali quello di saldare ciò che stava dentro e fuori le mura anche attraverso la previsione di un «grande viale della circonvallazione esterna […] scandito da piazze alberate». Ma l’«attenzione per le preesistenze […] si fa molto minore (in particolare per i bastioni)» (Boriani e Rossari, 1992: p. 28 e 26) e si cancellano «così dalla morfologia di Milano i segni dell’antico dualismo tra città murata e suburbio» (Grandi e Pracchi, 1980: 47) (fig. 5).
Anche di questa cerchia di mura, dunque, rimangono poche tracce fisiche – sostanzialmente «una porta con un baluardo (porta Romana) e qualche resto nell’arco meridionale, tra porta Lodovica e porta Vittoria» (Oliva, 2002: 29) – ma resta evidente un tracciato, quello di un doppio viale di circonvallazione prevalentemente dedicato alla mobilità veicolare. Curioso rilevare come ciò che non è stato abbattuto e trasformato abbia assunto una funzione e un’immagine quasi domestica. In viale Beatrice d’Este o in viale Filippetti, per esempio, ciò che resta dei Bastioni è ridotto a recinzione di proprietà condominiali o a «elemento decorativo di qualche giardinetto pubblico realizzato negli anni Cinquanta» (Oliva, 2002: 29) (fig. 6). Il piano che consolida questa sistemazione – non senza continuità con il piano Albertini della prima metà degli anni Trenta (Riboldazzi, 2008, 2010) e con quelli di cui si è detto prima – è quello entrato in vigore nel 1953 dopo una lunga elaborazione avviata a ridosso della Liberazione. Qui il sedime delle mura – anche in virtù delle distruzioni belliche dei tessuti immediatamente prospicienti (Pertot e Ramella, 2016) – avrebbe forse ancora potuto rappresentare il riferimento ideale per la creazione di un sistema di spazi pubblici a corona del centro della città. Un’occasione persa perché questo innovativo strumento – che fu esito di una tra le prime, forse la prima esperienza di progettazione partecipata in Italia (vi lavorarono infatti oltre cento tra ingegneri, architetti e altre figure professionali) – così come molti piani di quell’epoca, fu molto più attento alle esigenze del traffico e agli aspetti edilizi e funzionali (case, uffici, industrie, infrastrutture, servizi). Assai meno alla dimensione di uno spazio pubblico strutturante i tessuti urbani (Boriani et al., 1982; Riboldazzi, 2013, 2016). A ciò si aggiunga che, a Milano come altrove, nel secondo dopoguerra – così come tra le due guerre, ma con l’aggravante dell’urgenza della ricostruzione e le pressioni degli interessi immobiliari – quello del rapporto con le preesistenze storiche fu un tema non sempre adeguatamente considerato negli strumenti di pianificazione, tanto nei piani di ricostruzione (Simonelli, 2008) quanto nei piani regolatori generali comunali immediatamente successivi (Campos Venuti e Oliva, 1993; Salzano, 1993; Cederna, 1954). «In termini generali, l’atteggiamento diffuso che caratterizza la mentalità milanese – laddove in nome del progresso si ritiene necessario, o si accetta come ineluttabile, il sacrificio dell’antico, percepito come ostacolo allo sviluppo della città moderna – contagia inevitabilmente […] la progettazione urbanistica (anche nelle sue possibili derive distruttive)» (Pesenti, 2018: 122). Così, come per il centro storico, da questa vicenda traspare, in generale, la scarsa considerazione che Milano ha avuto per i manufatti del suo passato e ci dice dell’incapacità, mascherata da pragmatismo, di costruire un rapporto maturo con le preesistenze, a livello amministrativo, tecnico e culturale, cogliendole come occasione per dare corpo a una città nuova senza negare quella vecchia.
Quelle che Milano nel corso del Novecento non ha avuto il coraggio di abbattere sono mura di altra natura. Di cui, come in altre città italiane e del mondo, è palpabile – e persino orticante sulla pelle delle fasce sociali più deboli (giovani, anziani e immigrati in particolare) – la presenza. Quelle invisibili che dividono la città per parti, in una specie di contemporanea zonizzazione che poco ha a che fare con quella funzionalità dei suoi tessuti ricercata dalla cultura urbanistica moderna e molto, invece, con il reddito e la provenienza sociale dei suoi abitanti. Mura senza alcuna fisicità che tuttavia costruiscono confini, barriere, limitano fortemente le possibilità di una piena cittadinanza. È qui che lo spazio pubblico potrebbe e dovrebbe ritrovare la sua natura più vera, accogliente e democratica, contribuendo a ridurre le differenze e consentendo a tutti di essere uno e tanti allo stesso tempo, semplicemente cittadini (Consonni, 2008, 2013, 2016; Secchi, 2013; Mazza, 2015; Pavia, 2015; Settis, 2017; Olmo, 2018; Pasqui, 2018).


Milano città d’acqua: amata, negata, ridesiderata

Nei secoli che precedono il Novecento, Milano si è sostanzialmente configurata come una città d’acqua. Non solo per la presenza di fiumi – il Lambro, il Seveso, l’Olona – ma soprattutto per una fitta rete di rogge e canali: il Naviglio della Martesana, il Naviglio Grande, il Naviglio Pavese; la cosiddetta “Cerchia” o “Fossa interna” realizzata tra Tre e Quattrocento – su cui si affacciavano anche le dimore patrizie della città –; la Darsena che – con il Bacino di San Marco e il Laghetto dell’Ospedale – si configurava come un vero e proprio porto per le merci che affluivano a Milano; le conche – necessarie per far superare alle barche il dislivello tra un canale e l’altro –. Uno straordinario esempio di ingegneria idraulica che intesseva città e territorio rinsaldandone il legame funzionale e formale che, per secoli, fu espressione e garanzia di prosperità (Codara, 1927; Celona e Beltrame, 1982; Malara, 1996; Sandri, 2000; Lembi, 2006) (fig. 7). Tuttavia, già dalla seconda metà dell’Ottocento ma soprattutto nel corso del Novecento, questo articolato e ingegnoso sistema viene progressivamente smantellato. «per una malintesa sensazione che […] potesse rappresentare un intralcio alla modernità e alla mobilità e quindi in omaggio alla crescita di una Milano che si voleva proiettata verso un futuro di grande metropoli» (Boatti, 2007: 263). Così, fiumi e canali vengono coperti o completamente chiusi adducendo ragioni igieniche o viabilistiche (Comolli, 1994). E questo avviene tanto in epoca fascista quanto in piena democrazia. Milano, in sostanza, durante il secolo scorso si è spesa per negare una parte significativa della propria identità e della sua bellezza. E con questa – è stato osservato – quel tratto che le apparteneva, colto anche da Stendhal, ovvero quello della «affabilità, da intendersi come relazione serena e garbata fra una città e i suoi abitanti. Quella stessa affabilità che [– tra l’altro –] è proprio l’unica in grado, se raggiunta, di rendere ‘bello’ il disegno moderno» (Comolli, 1994: 17).
Tra le cause scatenanti la sistemazione idraulica del territorio – e insieme ad essa la cancellazione di diverse vie d’acqua da Milano – vi è l’annessione, nel 1923, di undici comuni limitrofi al territorio milanese. Le fognature e i canali di deflusso delle acque reflue apparivano insufficienti e il rischio era che le falde acquifere più superficiali si inquinassero diffondendo malattie infettive. Tra gli interventi previsti vi fu la ridefinizione e il parziale interramento del corso dell’Olona, a ovest della città, che con l’estendersi dell’edificazione si trovava ormai inglobato nei tessuti urbani. “Lo stato di abbandono dell’alveo generava miasmi e gravi problemi di ordine igienico, denunciati dagli abitanti dei quartieri interessati, mentre il suo andamento irregolare e sinuoso determinava continui ‘ostacoli di ordine edilizio e stradale’” (Riboldazzi, 2008: 116). Lo stesso fiume, in un tratto più a nord, sarà oggetto di interventi analoghi nel secondo dopoguerra in occasione della realizzazione del quartiere QT8 (Quartiere sperimentale della ottava Triennale) progettato, nella versione definitiva della metà degli anni Cinquanta, da Piero Bottoni (Consonni et al., 1990; Tonon, 2005; Consonni e Tonon, 2010).
Negli anni immediatamente successivi, la copertura della Fossa interna dei Navigli fu uno dei primi e più eclatanti interventi dell’amministrazione podestarile. La richiesta di autorizzazione al Ministero dei Lavori pubblici venne presentata nel 1928 adducendo ragioni di carattere igienico e viabilistico ma omettendo la valorizzazione immobiliare che invece caratterizzerà gran parte degli interventi di trasformazione del centro di Milano. L’opposizione degli ambienti artistici fu rilevante così come lo fu quella dei proprietari degli immobili prospicienti l’intervento chiamati a versare contributi “di miglioria” a copertura di una spesa che fu rilevantissima. Il Comune, tuttavia, fu determinato nei suoi propositi al punto da avviare i lavori ancor prima di ottenerne l’autorizzazione. Inerme, invece, la Soprintendenza. È così che il centro di Milano nel giro di qualche anno si ritrovò – e si ritrova tuttora – avvolto da un anello di circonvallazione viabilistica, stretto al punto da essere considerato un «cappio al collo della città». Nulla a che vedere – come ammisero anche gli organi tecnici municipali – con il Ring viennese (Franchi, 1972).
In anni più recenti, non sono mancate proposte per la valorizzazione del sistema dei Navigli, il più delle volte avanzate nel quadro di ipotesi legate a una riqualificazione ecologico-ambientale, paesaggistica e urbanistica della città e del territorio (Celona e Beltrame, 1982, Comolli, 1994; Pugliese e Lucchini, 2009; Brenna, 2010; Boatti e Prusicki, 2018). Alcune di queste, particolarmente suggestive, hanno anche goduto di un certo successo mediatico e di consenso popolare. Tra queste, quella di Antonello Boatti e Marco Prusicki che hanno ridato slancio a un’idea che ciclicamente viene a galla circa la riapertura di una parte del sistema dei Navigli accompagnata da una generale riqualificazione dello spazio pubblico circostante (Boatti e Prusicki, 2018) (fig. 8). Una proposta che – pur godendo del sostegno dell’amministrazione comunale che ha anche finanziato una specifica attività di ricerca scientifica – ha suscitato non poca preoccupazione per i costi e per gli impatti che comporterebbe.

 

Mura e acqua oggi

Oggi, Darsena, Naviglio Grande e Naviglio Pavese – che sono, insieme a quello della Martesana, ciò che sostanzialmente di quel sistema è sopravvissuto ed è giunto sino a noi – sono tra i luoghi a cui i milanesi sono più affezionati e tra quelli sicuramente più vissuti della città. Un appeal che va oltre i confini comunali e permea l’immagine stessa di Milano a livello nazionale e internazionale tant’è che quest’area è anche una delle mete preferite dai turisti o da quanti frequentano il capoluogo lombardo per svago nei fine settimana o nelle sere d’estate venendo dall’hinterland o dalle città circostanti. Questo al punto che – come succede in diversi contesti storici del nostro Paese (Montanari, 2013; Settis, 2014; Semi, 2015) – anche qui si è innescato quel circolo vizioso che con la progressiva riqualificazione dei contesti ha trascinato con sé la sostituzione delle tradizionali attività commerciali e un forzato ricambio dei residenti mutandone l’identità e l’antico intreccio con la vita quotidiana della città.
Il legame con ciò che resta delle cerchie di mura che nei secoli hanno abbracciato la città è invece assai meno esplicito. Va un po’ ricercato, con passo lento e sguardo curioso. In ogni caso è forse solo in alcuni punti, in prossimità o dove è rimasto un qualche tipo di relazione con le antiche porte, che queste hanno rinnovato il loro legame con la vita della città. Ci riferiamo, per esempio, alla zona di Porta Ticinese (quella medievale) e delle colonne di San Lorenzo in cui si assiste a una situazione analoga a quella dei Navigli. Oppure all’area di Porta Sempione – sostanzialmente dietro al Castello Sforzesco, oltre a quella che era la piazza d’Armi definita nel piano del 1807, in cui primeggia l’ottocentesco l’Arco della Pace di Luigi Cagnola – riqualificata da Vittoriano Viganò negli anni Ottanta (Aa.Vv, 1992; Stocchi, 1999). La stessa cosa può dirsi dell’area intorno a Porta Ticinese (quella delle mura spagnole) riqualificata sulla base di un progetto di Edoardo Guazzoni, Paolo Rizzatto, Sandro Rossi e realizzata tra il 2004 e il 2015. Uno spazio pubblico che ingloba la Darsena – sotto cui era prevista la realizzazione di un parcheggio interrato fortunatamente non realizzato –  che per anni si è presentato agli occhi dei milanesi in uno stato di abbandono indegno di Milano ma poi è stato subito amato e apprezzato dai cittadini (Guazzoni et al., 2016). Un altro esempio che possiamo considerare è quello di Porta Volta in prossimità della quale è stata realizzata la nuova sede della Fondazione Feltrinelli progettata da Herzog & de Meuron tra il 2005 e il 2013 e inaugurata nel 2016: qui, forse, dal punto di vista della costruzione dello spazio pubblico si sarebbe potuto agire con maggiore convinzione e cogliere questa occasione per un ripensamento dell’intera area intorno alla porta stessa (fig. 9). Infine, possiamo citare l’area del Castello che nel tempo è stata oggetto di più ripensamenti che, in seguito all’abbattimento delle fortificazioni, attribuivano un ruolo significativo allo spazio pubblico. Il primo e probabilmente il più noto è il progetto del 1801 di Giovanni Antolini (Reggiori, 1947) (fig. 10). Tra gli ultimi, invece, quelli realizzati in occasione di un concorso internazionale di progettazione per l’area di piazza Castello – Foro Buonaparte indetto e gestito dal Comune di Milano tra il 2016 e il 2017 (fig. 11). 
Decisamente più flebile, ma non del tutto assente, ciò che succede non tanto intorno ad altre porte ma in aree situate a una certa distanza per le quali, tuttavia, come dimostra la toponomastica, queste hanno rappresentato un riferimento geografico e identitario. Ci riferiamo, per esempio, alla celeberrima piazza Gae Aulenti disegnata da César Pelli e realizzata nell’ambito di un intervento comunemente denominato, appunto, ‘Porta Nuova’ proprio per la presenza, in prossimità, dell’omonima porta a cui è collegata da un percorso pedonale di nuova realizzazione che si innesta su corso Como. Una piazza entrata rapidamente a far parte dell’immaginario collettivo, anche a dispetto delle molte critiche che aveva suscitato la sua realizzazione, tant’è che, a differenza di altri spazi pubblici coevi, è oggi molto frequentata dai milanesi e dai turisti che sempre di più – dopo Expo e prima del Covid-19 – visitano la città. Un caso analogo è quello di Porta Vittoria che in realtà non esiste più – in piazza Cinque Giornate dove sorgeva rimangono infatti solo i caselli daziari –.  Questo toponimo come una eco si è riverberato più volte a est della città dando il nome a una fermata del passante ferroviario e, ancor prima, a uno scalo ferroviario poi dismesso dove si sta realizzando un intervento di riqualificazione di significative dimensioni che, tra le altre cose, prevedeva la realizzazione della Biblioteca Europea dell’Informazione e Cultura (Armentano e Lupatini, 2007). Oppure ai progetti per l’area dello scalo di Porta Romana: da quello della metà degli anni Novanta significativamente denominato parco Beruto contenuto nella proposta di “Nove parchi per Milano” – elaborata da un laboratorio di progettazione urbana coordinato da Raffaello Cecchi, Vincenza Lima, Pierluigi Nicolin e Pippo Traversi (Rocca, 1995) – a quelli che verranno: l’area è infatti stata venduta recentemente e dovrebbe essere bandito un concorso per il masterplan. In generale, possiamo dire che pur trattandosi di interventi che muovono da forti investimenti immobiliari che hanno l’obiettivo primario di una massimizzazione della rendita, a differenza di quanto forse si sarebbe fatto fino a pochi decenni fa, la componente dello spazio pubblico non viene trascurata. Quanto poi questi spazi siano veramente ascrivibili alla dimensione pubblica è un aspetto che andrà attentamente indagato. In più di un caso, infatti, si tratta di luoghi non solo di un’artificialità finanche stucchevole, ma realizzati su sedimi che non sono di proprietà pubblica, scarsamente interrelati dal punto di vista formale e sociale con i contesti in cui sono inseriti e con il resto della città.


Conclusioni

Non c’è dubbio che, come in altre città europee, l’infrastruttura che più di altre farà da guida alle trasformazioni urbanistiche milanesi dei prossimi anni e che sperabilmente potrà essere l’occasione per generare un sistema di spazi pubblici integrato e in grado da incidere significativamente sulla qualità della vita dei cittadini è quella ferroviaria (Montedoro, 2011, 2018; Protasoni, 2013; Castaldo e Granato, 2015). Trasformando gli scali dismessi, Milano ha cioè l’occasione storica «di utilizzare un sistema continuo di grandi spazi legati dal tracciato del ferro per cambiare il suo futuro e impegnarsi nella transizione verso una Metropoli policentrica, capace di offrire ai suoi abitanti un equilibrio avanzato tra la sfera naturale e la sfera urbana» (Boeri, 2018: 142). Un tema complicato, irrisolto, che vede il ‘pubblico’ pressato da istanze che poco hanno a che vedere con l’interesse collettivo rispetto al quale, tuttavia, la città – ovvero la pubblica amministrazione, la cultura tecnica e quella politica, la società – si gioca molto del proprio destino. Altre occasioni verranno dalla trasformazione delle aree industriali dismesse – un processo avviato decenni or sono che ha già dato molti frutti ma che non può dirsi del tutto concluso in termini di opportunità – e soprattutto dal recupero delle caserme (Neri, 2014; Pugliese, 2016): infrastrutture spesso di enormi dimensioni collocate anche nel cuore della città.
Tuttavia, quella di riprendere ciò che resta dei segni della storia premoderna – mura e acqua in particolare – per farne una sorta di infrastruttura-guida dello spazio pubblico urbano appare un’ipotesi non priva di interesse. Questo perché, pur trattandosi di un tipo di intervento di tutt’altra natura rispetto ai precedenti – tanto in termini di superfici interessate quanto di possibilità edificatorie – e con gradi di libertà progettuale assai più ridotti – si tratterebbe infatti di intervenire in contesti sostanzialmente già edificati –, consentirebbe di restituire o donare alla città una trama di luoghi della vita collettiva che sicuramente ne migliorerebbe le qualità. Dunque, l’ipotesi – tutta da verificare in termini progettuali, ovvero in termini di definizione di forme e funzioni – non è tanto quella di pensare a un singolo spazio pubblico eclatante – un grande parco o una grande piazza –, ma di andare nella direzione di ricreare una trama minuta e discreta di spazi collettivi che si limiti a rimettere i pedoni al centro del progetto; a intrecciare i luoghi con la loro anima coinvolgendo i frammenti del passato giunti sino a noi; a evocare – senza necessariamente spingersi a ripristinare ciò che non c’è più – la storia di quei contesti; a mettere ospitalità ed accoglienza al centro del fare progettuale. Si tratta di un esercizio che richiede una sensibilità particolare, una predisposizione all’ascolto, un tono di voce basso che lasci riecheggiare quei suoni che, a saperli ascoltare, ancora possiamo sentire. È solo così – tornando a praticare quell’arte di costruire le città in cui l’Italia e l’Europa per secoli hanno primeggiato – che si potrebbe partire per costruire una «infrastruttura narrativa dell’identità e della storia della città» (Città Mura Spazio pubblico, convegno a cura del Dipartimento di Architettura e Progetto, La Sapienza Università di Roma, 23 maggio 2019).




Riferimenti bibliografici

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