Progetto Urbano e aree ferroviarie. Tre questioni

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Progetto urbano e aree ferroviarie. Tre questioni
intervista a Nicola Russi, professore Politecnico di Torino – Laboratorio Permanente, a cura di Claudia Di Girolamo PDF




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Q1. Della difficoltà di fare progetto urbano

È da molto tempo che in Italia si sta cercando di promuovere progetti di ammodernamento delle stazioni e delle aree ferroviarie come progetti urbani, in grado di attivare e catalizzare lo sviluppo dei contesti circostanti. Le esperienze di successo tuttavia sono assai scarse, e molto spesso si è dovuto rinunciare a lavorare sul rapporto tra aree ferroviarie e città, nonostante le migliori intenzioni professate dagli attori in gioco.
Quali sono a suo avviso le ragioni di queste difficoltà? Sono ragioni insormontabili? A quali condizioni diventa possibile promuovere e realizzare progetti di stazioni in grado di attivare sviluppo urbano?


Q2. Ipotesi per il futuro

In generale, gran parte delle difficoltà di fare progetto urbano dipendono dalla problematica composizione tra le istanze di qualità del contesto tutelate dalle amministrazioni locali e le logiche stringenti che presiedono all’intervento da parte di Ferrovie dello Stato.
Quali che siano le reciproche attese e convenienze, esistono alcuni indirizzi di fondo a cui è possibile attenersi nell’impostare eventuali progetti per le stazioni e le aree ferroviarie intese come attivatori dello sviluppo urbano?

I progetti di riconversione dei grandi scali ferroviari sono una delle occasioni che abbiamo oggi per reinterpretare il rapporto tra le città italiane e il sistema ferroviario superando una stagione, piuttosto recente, in cui la disciplina architettonica è stata chiamata a confrontarsi quasi esclusivamente con il manufatto stazione.
Negli anni passati nuove stazioni sono sorte sul territorio nazionale, come Mediopadana, Afragola, Tiburtina, Porta Susa, altre sono state rinnovate più o meno radicalmente, penso a Termini, Centrale o all’ampliamento della stazione di Bologna. Se in quest’ultimo caso le stazioni, già inserite all’interno di un contesto cittadino spesso progettato e realizzato in contemporanea con la loro realizzazione, hanno confermato il ruolo centrale dell’infrastruttura che si è ulteriormente trasformata in un efficace strumento di rigenerazione urbana nel caso delle realizzazioni ex novo le relazioni tra infrastruttura e città sono stati estremamente più modeste, con poche eccezioni. Il caso forse più eclatante, che è stato oggetto di una mia ricerca intitolata “Landscape has no Rear” presentata alla XIV Biennale di Venezia nel 2014, è quello della Stazione Mediopadana, realizzata a poche centinaia di metri dalla via Emilia, il rettilineo italiano per eccellenza e a metà strada tra Piacenza e Bologna, confini amministrativi e culturali di uno dei territori agricoli più produttivi d'Italia. La stazione dalle geometrie sinusoidali e fortemente espressive di Santiago Calatrava è visibile dall’autostrada ma è decentrata, pressoché espulsa, dalla città di Reggio Emilia che le dà il nome e si staglia in un illusorio spazio vuoto dove scorre la vita lenta e sottile del paesaggio rurale. L’assenza di progetto che leghi questo edificio monumentale al suo territorio è evidente; non mi riferisco alla mancanza di adeguate connessioni infrastrutturali né all’assenza di un ambiente densamente costruito e di servizi a ridosso della stazione, intendo piuttosto una più attenta riflessione sulla relazione potenziale tra pieno e vuoto, accessibilità e lentezza, architettura e sfondo naturale. Ciò che appare oggi una mancanza evidente può essere reinterpretato come un inaspettato destino fortuito che offre a un brano della campagna italiana l'opportunità di trasformarsi in un luogo che accolga nuovi modelli di vita, profondamente legati al territorio e contemporaneamente connessi alla rete continentale dei collegamenti veloci. Quel vuoto accessibile può essere dunque letto come un invito, per ora totalmente inespresso, a riformulare una nuova idea di paesaggio abitabile, dove gli ambienti aperti e i paesaggi agricoli non rappresentino esclusivamente un'assenza di urbanità ma piuttosto un altro segno della sua presenza.
Seppur con un minore grado di evidenza la stessa mancanza di una visione che rifletta adeguatamente sul ruolo delle nuove strutture ferroviarie in rapporto al loro contesto è presente in quasi tutte le nuove realizzazioni. Anche nelle aree più densamente urbanizzate, come a Roma Tiburtina e a Torino Porta Susa, le due nuove stazioni non sembrano cogliere pienamente l’opportunità di costruire una relazione significativa con i tessuti urbani adiacenti né di proporre un modello nuovo di città. Per superare questa divisione dettata anche dalle diverse aree di competenza, mi riferisco a quelle più strettamente legate al manufatto ferroviario e a quelle a grande scala legate alla pianificazione locale, l’unica possibile strada è quella di favorire le condizioni per lo sviluppo di progetti che da principio e non a posteriori, studino le relazioni complesse tra infrastrutture, manufatti di nuova realizzazione, spazi urbani e tessuti esistenti. È il progetto urbano resiliente, nella sua dimensione morfologica e contemporaneamente nella sua concezione strategica e adattiva, lo strumento più opportuno che abbiamo oggi per controllare la complessità di trasformazioni a lungo termine, a scale diverse e in un contesto sempre più coinvolti dai cambiamenti globali. I concorsi possono sicuramente essere le occasioni migliori per investigare nuove modalità di concezione del progetto urbano ma a questi deve seguire un adeguato percorso attuativo.


Q3. Replicabilità del modello Milano

Milano negli ultimi tempi sta diventando un laboratorio estremamente interessante per una nuova generazione di progetti di riuso delle aree ferroviarie dismesse e per l’ammodernamento degli scali ferroviari come progetti urbani. Al di là della estensione delle sette aree ferroviarie messe in gioco dai progetti, appaiono interessanti e innovativi alcuni passaggi di metodo sperimentati nell’occasione. In particolare, sono da condividere alcune importanti innovazioni di processo, quali il rapporto istaurato inizialmente tra Comune e Politecnico per intercettare la domanda sociale e per impostare la visione strategica alla quale riferire i singoli progetti urbani. Poi la esplorazione progettuale degli ambiti d’intervento, affidata ad un workshop con la partecipazione di autorevoli architetti incaricati direttamente dal Committente. Infine, la messa a concorso dei progetti di trasformazione delle aree ferroviarie e degli scali da riqualificare con bandi elaborati sulla base delle specifiche risultanze dei progetti esplorativi.
In questi termini, l’esperienza di Milano può diventare un modello anche per altre città? A quali condizioni questa esperienza può essere replicata in altri contesti?
  
Il progetto “Agenti Climatici” sugli scali ferroviari di Farini e San Cristoforo, sviluppato dal mio studio Laboratorio Permanente e OMA con la collaborazione di Gunter Vogt, Philippe Rahm, Tempo Riuso, Arcadis Italia, Net Engineering, è stata l’occasione per riflettere sul rapporto tra ferrovia e grandi sviluppi urbani in un momento di drammatiche trasformazioni ambientali e di continua incertezza economica. Il progetto si interroga su un’alternativa possibile alla città del ventesimo secolo ad alto consumo energetico, guardando nuovamente ai principi climatici che hanno segnato lo sviluppo dell’urbanistica sin dall’epoca classica.
In un’ideale trasformazione dei modelli correnti di sviluppo economico, il progetto ribalta la prospettiva e propone due nuovi dispositivi ambientali: l’uno verde – un grande bosco lineare presso scalo Farini in grado di raffreddare i venti caldi provenienti da sud-ovest e di depurare l’aria dalle particelle più tossiche; l’altro blu – un lungo sistema lineare a San Cristoforo per la depurazione delle acque, che definisce un paesaggio per realtà umane e non-umane.
In questo nuovo sistema di valori il costruito è residuale, fluido, incerto. A Farini una nuova griglia urbana punteggiata da un sistema di spazi pubblici distribuiti strategicamente assicura il massimo della flessibilità, mentre la città di Milano offre modelli insediativi resilienti ed adattabili agli shock dell’economia globale.
Questa prima esperienza milanese può sì diventare modello per altre città a patto che la struttura generale del concorso, magistralmente architettata da Lepoldo Frerye, sia anch’essa da guida alle politiche di trasformazione di aree analoghe. La questione degli Scali, da lungo dibattuta in città, è stata infatti affrontata attraverso un articolato processo di partecipazione il cui concorso è l’ultimo risultato di un percorso molto più lungo.