Progetto Urbano e aree ferroviarie. Tre questioni

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Progetto urbano e aree ferroviarie. Tre questioni
intervista a Franco Purini, professore emerito università di Roma La Sapienza PDF




Q1. Della difficoltà di fare progetto urbano

È da molto tempo che in Italia si sta cercando di promuovere progetti di ammodernamento delle stazioni e delle aree ferroviarie come progetti urbani, in grado di attivare e catalizzare lo sviluppo dei contesti circostanti. Le esperienze di successo tuttavia sono assai scarse, e molto spesso si è dovuto rinunciare a lavorare sul rapporto tra aree ferroviarie e città, nonostante le migliori intenzioni professate dagli attori in gioco.
Quali sono a suo avviso le ragioni di queste difficoltà? Sono ragioni insormontabili? A quali condizioni diventa possibile promuovere e realizzare progetti di stazioni in grado di attivare sviluppo urbano?

Una delle difficoltà che si incontrano nell’elaborazione di progetti urbani relativi alle stazioni ferroviarie e alle aree pertinenti a esse, come gli scali, consiste nel fatto che non sempre la localizzazione di queste infrastrutture è in relazione diretta con il contesto circostante. In breve non sempre la posizione nel tessuto urbano dei grandi nodi ferroviari è strategica nei confronti del loro intorno. La seconda difficoltà consiste in due diverse finalità nella conversione di tali nodi in centralità metropolitane. L’interesse delle Ferrovie è infatti quello di capitalizzare un patrimonio costituito da grandi estensioni di suolo da utilizzare per interventi sostanzialmente speculativi. Al contrario l’amministrazione pubblica concepisce questi interventi come un’occasione per dotare la parte di città in cui sorgono di un luogo collettivo dotato di servizi, di spazi per la cultura, per l’incontro, con la fruizione del verde come riconduzione dell’artificialità urbana alla natura. Conciliare queste diverse intenzioni è piuttosto complicato, anche perché nel nostro paese l’investimento in simili operazioni deve dare risultati economici immediati. La terza difficoltà va riconosciuta in una visione troppo chiusa e ideologica dell’ambientalismo. Si tratta di un modo di pensare basato su una pregiudiziale interdizione rispetto a ogni modificazione della situazione attuale basata sull’idea di un futuro per un verso ispirato alla “decrescita felice”, per l’altro considerato come qualcosa di incerto, di non programmabile, di aleatorio e non, come dovrebbe essere, come un orizzonte previsionale da costruire. A tutto ciò va aggiunta anche la crisi del concetto stesso di progetto urbano, vanificato ormai da decenni a favore di operazioni sulla città prive di una loro coerenza funzionale e formale, di una autentica logica insediativa, della necessaria memoria della evoluzione nel tempo della città stessa. Occorre infine prendere atto che il fatto che la città si articola oggi in altrettante realtà urbane, spesso isolate, rende sempre più necessaria una visione metropolitana unitaria, l’unica che consenta di immaginare e di programmare efficaci processi di rigenerazione, parola ambigua per inciso che attualizza definizioni del recente passato come riqualificazione e ristrutturazione senza superarle. Una parola, comunque, migliore della consumistica smart, che mi dispiace anche scrivere, un vocabolo slogan che sottovaluta in più modi la città, la “cosa umana per eccellenza”, come ha scritto Claude Levy Strauss.

 

Q2. Ipotesi per il futuro

In generale, gran parte delle difficoltà di fare progetto urbano dipendono dalla problematica composizione tra le istanze di qualità del contesto tutelate dalle amministrazioni locali e le logiche stringenti che presiedono all’intervento da parte di Ferrovie dello Stato.
Quali che siano le reciproche attese e convenienze, esistono alcuni indirizzi di fondo a cui è possibile attenersi nell’impostare eventuali progetti per le stazioni e le aree ferroviarie intese come attivatori dello sviluppo urbano?

Sono convinto che siano tre gli obiettivi da individuare e da conseguire nell’urbanizzazione delle stazioni e delle aree ferroviarie. Essi sono la connessione di quartieri separati, in modo che possano interagire a diversi livelli; l’insediamento nelle aree recuperate di nuove strutture produttive per la città, di spazi per la cultura e per una vita comunitaria oggi privatizzata, ritenuta autentica nella virtualità dei social piuttosto che nella realtà; la creazione di eccezioni urbane rappresentate da spazi di sperimentazione nel presente di possibili assetti della città futura, spazi dell’avventura creativa,  oggi tutti da inventare, ma essenziali per creare le condizioni di imminenti trasformazioni delle città, ricordando che oggi esse sono tutte metropoli, qualunque sia la loro grandezza, data l’omologazione delle comunicazioni. Città che si trasformeranno probabilmente nei nodi pulsanti di una rete infinita.


Q3. Replicabilità del modello Milano

Milano negli ultimi tempi sta diventando un laboratorio estremamente interessante per una nuova generazione di progetti di riuso delle aree ferroviarie dismesse e per l’ammodernamento degli scali ferroviari come progetti urbani. Al di là della estensione delle sette aree ferroviarie messe in gioco dai progetti, appaiono interessanti e innovativi alcuni passaggi di metodo sperimentati nell’occasione. In particolare sono da condividere alcune importanti innovazioni di processo, quali il rapporto istaurato inizialmente tra Comune e Politecnico per intercettare la domanda sociale e per impostare la visione strategica alla quale riferire i singoli progetti urbani. Poi la esplorazione progettuale degli ambiti d’intervento, affidata ad un workshop con la partecipazione di autorevoli architetti incaricati direttamente dal Committente. Infine, la messa a concorso dei progetti di trasformazione delle aree ferroviarie e degli scali da riqualificare con bandi elaborati sulla base delle specifiche risultanze dei progetti esplorativi.
In questi termini, l’esperienza di Milano può diventare un modello anche per altre città? A quali condizioni questa esperienza può essere replicata in altri contesti?
  
Milano sta vivendo da qualche anno una intensa e dinamica stagione di rinnovamento che l’ha resa molto vicina alle metropoli europee. Sono sorti nuovi grattacieli, è stato migliorato il funzionamento complessivo della città, si sta costruendo una mitologia condivisa che riavvicina molti ceti, soprattutto quelli più attivi, alla vita urbana. Rimane escluso, però, il grande corpo periferico di Milano, che si distende nel territorio attorno con le sue conurbazioni industriali, terziarie e residenziali, sempre più marginalizzate. Tale corpo periferico, unitario e al contempo frammentario, ha una dimensione che supera ampiamente quella della città consolidata, con il suo bel centro stendhaliano sempre più esclusivo. Sono convinto che queste due entità, oggi separate in casa, debbano trovare al più presto un rapporto operante, un nuovo equilibrio che trasformi l’informalità attuale di Milano, ormai priva, come molte altre città, di una vera forma urbis, in un sistema riconoscibile di città autonome che vadano oltre quella dimensione regionale in cui stanno vivendo ora.  In effetti il pensiero sulla città, in particolare il suo versante urbanistico, è in declino. Occorre individuare un modello teorico più avanzato che riesca a rappresentare la realtà ancora poco indagata dalle metropoli globali, città ingigantite o post-metropoli in quanto superinsediamenti decadenti, da inquadrare in nuovo ordine dimensionale o, forse, in ciò che potrebbe rivelare il superamento di quest’ordine. Al di là del garbato trionfalismo di Giuseppe Sala, nonché dal celebre equivoco antiarchitettonico del Bosco Verticale, Milano può senz’altro trovare attraverso l’inserimento nel suo tessuto urbano delle aree ferroviarie, che ospiteranno grandi condensatori urbani, l’occasione più adeguata per ridefinire il suo progetto storico- già peraltro riproposto da qualche anno da Pierluigi Nicolin, in alcuni progetti di grande qualità innovativa - ricomponendo i frammenti della sua informalità in una narrazione urbana ancora una volta sorprendente. Senza dimenticare la Bicocca di Vittorio Gregotti, una città ideale lombarda che ha saputo riverberare all’intorno la capacità di costruire con il suo impianto e con le sue architetture una multipla e inedita spazialità, luogo di una comunità urbana che mi auguro sia sempre più vasta e produttiva. Per quanto riguarda Roma penso che sia necessario e urgente proporre un ridisegno generale delle aree dello Scalo San Lorenzo e della Stazione Tiburtina, rivolto alla creazione di una sorta di Eur Est, eredità dei sogni irrealizzati dell’Asse Attrezzato del 1962 e del successivo SDO. Una simile operazione rappresenterebbe un cambio epocale della condizione periferica, sempre più difficile, critica, provata anche della sua consolidata mitologia postpasoliniana.