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PROPOSTA DI LEGGE POPOLARE PER LA QUALITÀ DELL’ARCHITETTURA. Giustino Vallese
Dall’idea della “qualità” come obbligo alla visione della “qualità” per esigenza.

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L’Architettura è "un elemento fondamentale della storia, della cultura e del quadro di vita di ciascuno dei nostri paesi" - risoluzione 12/02/2001 del Consiglio dell'Unione Europea

Febbraio 2011. Progetti e Concorsi, settimanale del sole 24 ore, elabora e promuove una proposta di legge (allegato pdf) “popolare” per la qualità dell’architettura che sottopone all’attenzione dei lettori: aumentare il mercato per i professionisti, innovare ed innalzare la qualità delle realizzazioni, rimuovere le condizioni che limitano le partecipazioni ai concorsi dei giovani e dei piccoli studi, sono gli obiettivi fissati negli undici articoli di cui si compone la bozza di legge.
Pochi articoli, che provano ad incidere profondamente e direttamente nei meccanismi che regolano la progettazione in Italia, a partire dalle opere pubbliche.

La proposta di legge perde parte dell’ambizioso portato culturale dei disegni di legge succedutesi negli ultimi quindici anni,  limitando al minimo l’enunciazione di principi di carattere generale sul valore dell'architettura e sulla promozione di iniziative culturali. Riprendendo in parte la legge Francese sull’architettura, risalente al 1977, l’art 1 stabilisce che “..l’architettura è una espressione della cultura e del patrimonio artistico del nostro paese. La Repubblica promuove e tutela con ogni mezzo la qualità dell’ideazione e della realizzazione architettonica come bene di interesse pubblico primario per la salvaguardia e la trasformazione del paesaggio”. Gli articoli che seguono dispongono profonde modifiche al Codice degli Appalti, imprescindibili alla rivitalizzazione del mercato che inerisce la costruzione dell’ambiente antropico.
Limitando al minimo tutto ciò che rischia di rappresentare astratti e sterili principi,vede la luceuna proposta, all’insegna di una buona dose di pragmatismo, consapevole di operare in un contesto sociale, culturale ed economico in cui il progetto è inteso come un “improduttivo disturbo” e l’architettura non è sentita come bisogno sociale.
Potrebbe risultare un passo in avanti per un’effettiva inversione di marcia. L’iniziativa suscita molto interesse, viene fatta propria anche da una parte del mondo politico, che in maniera bipartizan, “adotta” l’iniziativa, plaude il Consiglio Nazionale degli Architetti e molti Ordini professionali aderiscono con entusiasmo, volti noti e meno noti del professionismo colto ci mettono la faccia avanzando proposte. Trova persino un alleato insperato nella massima rappresentanza del mondo dei costruttori (ANCE) che pare finalmente accorgersi - con sorpresa - che nelle nostre città esistono brandelli da rottamare “e non solo perché brutti, ma perché insicuri, costruiti male o abbandonati”, e che, in ultimo, la qualità dell’architettura “conviene” anche ai costruttori. Anche se con un po’ di scetticismo, più che comprensibile visti gli innumerevoli tentativi susseguitisi con l’intento di veder promulgata una legge sull’architettura, quest’iniziativa è apparsa come una insperata possibilità di apportare una boccata di ossigeno ad un mercato asfittico reso ancor più agonizzante da una terribile crisi congiunturale.
Ma puntualmente, anche stavolta, causa turbolenze dei mercati finanziari e avvento di un governo tecnico, l’iter parlamentare, avviato nell’estate 2011, è costretto ad un forzato stand-by.
Nell’attesa, proviamo a percorrere alcuni nodi salienti con uno sguardo al testo che è integralmente allegato per eventuali approfondimenti e chiarimenti.

Realizzare un vero mercato della progettazione.
Il punto di forza della proposta di legge, come abbiamo già detto, è quello di ribaltare alcuni principi del Codice degli Appalti.
Agli artt. 7 e 8 si riafferma che la progettazione spetta ai professionisti esterni, e non alla pubblica amministrazione - cui spetta il solo compito di programmare e vigilare; e tantomeno spetta ai costruttori, che, attraverso l’applicazione dell’appalto integrato, che unisce confusamente progetto e realizzazione nelle mani dello stesso cartello d’imprese, ha determinato frequentemente l’aumento dei costi e lo scadimento della qualità delle realizzazioni. Si prevede, pertanto, la possibilità di ricorrere all’applicazione dell’appalto integrato per opere sotto i 500 mila euro, sopra i 20 milioni di euro, per lavori di manutenzione restauro e scavi archeologici, o nei casi in cui la componente impiantistica o tecnologica abbia una elevata incidenza (più del 60%).
L’art. 3, comma 1, pone un freno alle trattative private e agli incarichi fiduciari, proponendo la riduzione delle soglie e provando ad arginare consulenze e convenzioni che talvolta sono utili ad aggirare la gara. Le deroghe dovranno essere autorizzate dall'Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici.
Il comma 4 dello stesso articolo pone uno stop ad ogni forma di aggiramento della concorrenza a partire dalle convenzioni della pubblica amministrazione con Università, Enti di Ricerca e Onlus.
Le stesse gare - art. 4 - sono riformate, nel tentativo di impedire che il progetto risulti perdente nei confronti di una logica che premia prezzi bassi, curricula o tempi stretti, che difficilmente permetterebbero di redigere progetti credibili ed efficaci. Attraverso un differente calibratura dei fattori ponderali alla proposta metodologica progettuale è conferito maggior peso rispetto ad ogni altro criterio.

Centralità della  qualità progettuale
L’art.3 comma 2 sancisce che Il concorso di progettazione deve diventare la via prioritaria per l'affidamento delle opere pubbliche. Oggi il ricorso al concorso da parte sia delle pubbliche amministrazioni che dei privati rappresenta quasi un evento eccezionale, se guardiamo al panorama italiano. Basti ricordare che ogni anno sono banditi in Italia circa 200 concorsi (per circa 150.000 architetti e 200.000 ingegneri) contro i 1500 banditi in Francia, ad esempio.
La proposta progettuale, allora, diviene centrale, ribadendo con forza che la selezione attraverso il concorso deve divenire strumento principe per l’affidamento della progettazione di opere ed interventi anche di piccola entità. Il ricorso ad altre procedure che non siano il concorso di progettazione, obbligherà la stazione appaltante a dimostrare che, così facendo, otterrebbe progetti migliori per aspetti tecnologici e qualitativi, e tale dimostrazione sarà sottoposta alla valutazione dell’ Autorità di Vigilanza pena la nullità del bando. Affinché le pubbliche amministrazioni siano correttamente instradate ed assistite nell’organizzazione dei concorsi viene introdotta la figura dell’advisor, consulente-specialista in grado di supportare le stazioni appaltanti nell'organizzazione e nella gestione del concorso.
Altra condizione fondamentale, che la legge introduce, all’art.10, è la certezza della realizzazione necessaria a scongiurare il rischio che i progetti restino sulla carta, chiamando i funzionari responsabili a rispondere di danno erariale se al concorso non fa seguito la realizzazione dell'opera, fatta eccezione per casi non dipendenti dalla volontà delle amministrazioni. Inoltre ogni opera inserita nel programma triennale delle amministrazioni deve essere dotata almeno del Documento preliminare alla progettazione a prima garanzia della fattibilità.
Potenziare l’espletamento di concorsi, finanche solo per quanto riguarda la realizzazione delle opere pubbliche, è l’aspettativa “minima” di ogni azione/tentativo di rilancio di politiche sulla promozione della cultura architettonica. Ma non basta un obbligo per legge. Occorre analizzare alcune specificità della situazione italiana e provare a tagliare su di esse le soluzioni migliori.
Superare la diffidenza.  Gare e concorsi sono vissuti, soprattutto dalla politica, come una fastidiosa imposizione normativa e non come il modo migliore per assicurare consenso e qualità delle opere pubbliche. Talvolta, anche la necessaria trasparenza e democraticità della procedura concorsuale è vista come una limitazione di quella capacità di esercitare il ruolo di “committenza”: ossia, ancora una volta, una sorta di confine all’esercizio del proprio potere politico. In ogni caso, non è trascurabile il contesto amministrativo italiano, in cui spesso, piccole, a volte piccolissime amministrazioni, risultano sprovviste di ogni supporto e carenti di risorse umane adeguate a gestire tali processi. Si pone quindi un problema di "sostenibilità" da parte di molte stazioni appaltanti, come ora organizzate, cui si lega anche la qualità architettonica degli interventi programmati.
Inoltre, attualmente sembra registrarsi una carenza di conoscenza procedurale, ossia non v’è consapevolezza che il concorso richiede lo stesso tempo di una gara e dà più garanzie di riuscita:  con un concorso si sceglie ( con maggiori probabilità) un progetto sulla base del merito. Tra l'altro, il procedimento delle gare è più facilmente impugnabile.
Non da ultimo, il ricorso al concorso deve riconquistare il suo obiettivo principale: quello di rispondere ad un problema tecnico attraverso una soluzione architettonica e non quello, spesso rimarcato, di rappresentare se stesso come mero strumento esplorativo del problema.
Superare la diffidenza, dunque, non può prescindere dall’operare a monte una sensibilizzazione nei confronti delle stazioni appaltanti e, al tempo stesso, dal limitare al massimo, proprio attraverso questa legge, le possibili deroghe rispetto ai concorsi: la richiesta di fornire adeguate motivazioni da parte delle stazioni appaltanti per addivenire ad una preventiva autorizzazione in deroga, da parte dell’autorità di vigilanza, nel caso di “opere rilevanti”, potrebbe non essere sufficiente come deterrente. Inoltre chi decide la “rilevanza” o meno dell’opera?
D’altro canto, però, non si può porre obbligo al concorso se contemporaneamente non si opera nella direzione di rendere compatibili tempi e modi di finanziamento delle opere con l’istituto stesso del concorso di progettazione. Occorre ricordare che spesso finanziamenti vengono concessi verso una tempistica che impone una velocizzazione del processo, non sempre salutare per l’opera.
Promuovere e gestire un iter concorsuale è oneroso per l’ente banditore, tanto che spesso il dato economico ne diviene primo deterrente.
Se l’esperienza di Qualità Italia1 - programma interministeriale promosso dai Beni Culturali e dallo Sviluppo Economico – finalizzata alla promozione dell’istituto del concorso di architettura, rappresenta un lodevole tentativo di supporto economico agli Enti, è pur vero che, su tredici concorsi effettuati, ad oggi si conta un solo cantiere aperto, pochissimi progetti esecutivi redatti, ed in alcuni casi al concorso non è seguito neppure l’incarico.
In un tale condizione appare chiaro che condizione necessaria per ottenere qualche risultato sul fronte concorsuale è quella di operare un grande “investimento” economico, con incentivi al pubblico e sgravi fiscali per il privato, sgomberando il campo da qualunque illusione che il rilancio possa avvenire a costo zero. Investire dunque a livello centrale, ma obbligare le regioni a legiferare in materia al fine di coinvolgere largamente l’attore privato, nella convinzione che è sempre più necessario coinvolgerlo attivamente nei processi di qualificazione dello “spazio”.

Accesso semplificato alle giovani generazioni.
Con l’idea che i giovani talenti rappresentino una risorsa non trascurabile, l’istituto del concorso, che preveda una generalizzazione all’accesso, è una praticabile novità della legge. Infatti, l’art. 3 sancisce che i requisiti tecnico-professionali possano essere accertati solo al momento dell'affidamento dell'incarico, dando così al vincitore che ne sia sprovvisto, di certificarli mediante una sorta di avvalimento a valle. Questo permetterebbe al soggetto vincitore, pur se giovane, di mantenere la responsabilità nei confronti della stazione appaltante e di scegliere i propri collaboratori esercitando il ruolo di capo-progetto.
Dunque, pur nei limiti precedentemente evidenziati, può comunque essere espresso un giudizio positivo in quanto la legge ha perlomeno il merito di riportare al centro dell’attenzione il tema della qualità dell’architettura.
Se il concetto di qualità2 è, in senso lato, ciò che attiene al valore intrinseco ed estrinseco, come misurare questo valore? O meglio è possibile costruire una griglia che riconduca la valutazione dell’architettura e del paesaggio tutto ad una misurabile oggettività?
“Molto più della semplice bellezza”, ma anche molto più che visibile esaltazione/esasperazione di aspetti prestazionali, definire i confini entro cui circoscrivere una simile esercizio critico appare sempre più labile se si procede per semplicistiche riduzioni a singoli fattori. Viceversa, credo che, oggi molto più che in passato, sia necessario spostare l’attenzione dall’oggetto (esito) al processo (svolgimento), nella convinzione che il “valore” del primo sia assolutamente imprescindibile dal “valore” del secondo. Dal “valore” e non dalla correttezza: poiché trattasi di “pregio” e non di “validazione”, ossia di mero confronto con regole e dati già noti ed attendibili.

La trasformazione del territorio è evidentemente un'attività complessa. Sia essa esito di una grande infrastruttura o di un edificio, o della riqualificazione di uno spazio pubblico, presuppone la messa in campo di competenze vaste, di capacità tecniche specialistiche, di sensibilità sociali e culturali: tutto ciò entra in gioco allorché il progetto di architettura è costretto a confrontarsi e a governare un elevato numero di fattori, tutti differenti per estrazione, natura e rappresentazione, spesso in conflitto tra loro. L’obbiettivo diviene, dunque, quello di garantire un prodotto in  costante relazione con i processi dinamici di trasformazione nella contemporaneità.
Ma guai ad illudersi che per legge si possa sancire la qualità architettonica, che attraverso il controllo di gare o la promozione di concorsi ci ritroveremmo immediatamente sommersi da “buoni progetti” ed immersi in un “ottimo ambiente”. E’ mia profonda convinzione che nessuna norma possa invertire repentinamente la situazione, ma che è necessario, direi non più procrastinabile, operare una vera e propria rivoluzione culturale.
Se, strumentalmente, individuiamo due macro-categorie di attori, i tecnici-progettisti e i commitenti-utenti, da subito è possibile focalizzare su alcune spinte in avanti.
In primo luogo, porrei la necessità di innovare profondamente i processi di formazione accademica e post-laurea, nonché quella di ridefinire in modo netto specifici ruoli e competenze tecniche in favore di una completa e corretta sinergia.
Università e Professioni. Due mondi da sempre strutturalmente connessi, oggi destinati a patire, seppur con i dovuti distinguo, una importante disabilità: essere pesantemente condizionati dalle proprie specificità. Presupposto questo, tradotto immediatamente in un pericoloso quanto inopportuno scollamento dal “reale” per l’università, e in un atteggiamento di progressiva rinuncia a qualsiasi speculazione o velleità di ricerca per la professione.
Seppur obbligate a rispondere a innovazioni tecniche e procedurali sempre più pressanti, oggi università e professione sembrano mostrare rispettivamente inefficacia a fini formativi e inadeguatezza al governo delle trasformazioni. Inoltre, condannandosi alla segregazione reciproca hanno di fatto amplificato una divaricazione fondata sulle specificità di ciascuna.
Se lo “specialismo” è oggi necessità a garanzia di qualità, l’ottimizzazione dello stesso è certamente distrazione dalla qualità. Occorre promuovere una pratica del progetto che affidi la bontà dell’esito finale al controllo dell’intero processo, come attitudine di pensiero e modus operandi sin dall’esperienza universitaria.
D’altra parte, trasformando, di fatto, la “cultura” architettonica in mera pratica edilizia, un certo professionismo ha relegato la ricerca progettuale ad una posizione di subalternità.
Gestire il progetto contemporaneo attraverso un processo complesso costruito a partire da dati variabili e spesso oppositivi, non permette che si trascuri né la componente speculativa, né quella più meramente tecnico-operativa. Necessaria risulta la “formazione permanente”. Il contributo dell’Università alla formazione post-laurea dovrebbe dunque spendersi nella direzione di esportare in ambito professionale il sistema metodologico di fare ricerca mediante il progetto; quello delle Professioni dovrebbe ricondurre alla speculazione l’intero precipitato di elementi in gioco, sin dalla formazione in aula.

Tutto ciò è condizione sì necessaria, ma nient’affatto sufficiente. In Italia tutti possono fare progetto: architetti, ingegneri, geometri, forestali, periti industriali e agrari, tutti quasi con la medesima competenza, legalmente riconosciuta! In una delirante girandola di sconfinamenti disciplinari, in cui neppure le numerose sentenze riescono ad incidere significativamente sull’attuale deregulation normativa, ogni corporazione, ognuno tende a mantenere e spesso a guadagnare - con ogni mezzo - un maggiore campo d’azione.
Da qui deriva un inevitabile abbassamento della qualità delle prestazioni professionali, da intendersi come assenza di coerenza, conformità, controllo, coordinamento sia del processo di generazione delle idee progettuali che delle istruzioni specifiche necessarie alla costruzione del manufatto edilizio.
Un credibile ripensamento sul destino delle trasformazioni territoriali passa anche attraverso una seria riforma delle professioni, che azzeri le posizioni di privilegio e tuteli le peculiarità disciplinari, definendo chiaramente i campi di applicazione; con la certezza che regole chiare non comporterebbero né una  restrizione del mercato delle professioni, né un aumento dei costi per l’utente finale. Attraverso la necessaria multidisciplinarità oggi richiesta dall’aumentata complessità dei processi costruttivi, si determinerebbero le condizioni per le quali ogni prestazione professionale si svilupperebbe all’interno delle proprie attitudini e idoneità disciplinari. Ne gioverebbe il committente, messo al riparo da prestazioni professionali generaliste e approssimate, ne avrebbe beneficio il professionista, operando responsabilmente in un mercato che premia competenza e capacità. 

Altra questione nevralgica è certamente rappresentata da quella piccola rivoluzione culturale cui va indirizzata la committenza/utenza.
Tornando sulla Proposta di Legge di iniziativa popolare sulla qualità dell’architettura, parrebbe, stante il nome, che questa sia esito di una iniziativa partita dal basso, dalla moltitudine di individui sociali che, a vario titolo, frequentano, usano, condizionano lo spazio antropico.
Un’idea affascinante che presupporrebbe una visione della “qualità” come esigenza, e non come obbligo.
Di fatto, però, la proposta non solo è promossa dagli addetti ai lavori (seppur numerosi), ma anche dibattuta da loro stessi, gli unici - del resto - che sembrerebbero volerla. E il “popolo” dov’è? Quella civitas che nello spazio “architettato” dovrebbe riconoscersi, che quei luoghi dovrebbe concorrere a realizzare, quanto interesse, partecipazione mostra, se non in termini di interesse squisitamente privatistico? Quanto sembra comprendere che il territorio le appartiene come patrimonio indivisibile e che il diritto alla trasformazione consapevole dello stesso va difeso culturalmente?
L’intensità di una domanda sociale di architettura, allora, misura il grado di civiltà di una popolazione, e se non c’è domanda non v’è neppure spinta ad adeguare la legislazione.
Occorre, pertanto,  avviare una profonda revisione culturale e sociale, prima che politica, occorre puntare su un processo di educazione che non può che partire dal basso.
Lavorare al fine di creare le condizioni culturali per cui la committenza tutta (pubblica o privata che sia) acquisisca piena consapevolezza di quanto l’architettura di “valore” proprio perché è tale diviene beneficio per la collettività. Perché, sempre, il committente è individuabile, ma l’utente è molteplice.
Lavorare affinchè quella civitas sia formata per “valutare” l'architettura, per difendere standard alti che evitino di far subire conseguenze anche di lunghissimo termine. Sono parametri di qualità la sicurezza antisismica e strutturale, l'innovazione tecnologica, una sostenibile manutentabilità dell’opera, la capacità del progettista di leggere ed interpretare rispettosamente un contesto, di comprendere le esigenze funzionali dell’utenza e, non ultimo, ma certamente di più difficile comprensione, la capacità di operare scelte linguistiche e compositive in grado di esprimere i valori della contemporaneità.
Un processo di lungo corso, dunque, che passa più per un trasversale cambio di mentalità, che per una imposizione normativa che, come noto, non corrisponde a certezza!



1 Il programma prevedeva un contributo di 100.000 euro alle amministrazioni che si candidavano impegnandosi a realizzare le opere frutto dei concorsi di progettazione, e non di idee. Iniziativa nata per tante nuove opere pubbliche, piazze, parcheggi scuole; Piccole opere  anche a misura di studi emergenti. A distanza di quattro anni, i buoni propositi del programma si sono arenati principalmente per la scarsa liquidità finanziaria di comuni e province aggravata dalla crisi, per i ritardi dei fondi regionali ed europei, con la scarsa liquidità dei privati coinvolti con opere a scomputo, con i rinnovi degli stessi  consigli comunali, ma anche con avvicendamenti e cambi di regia della stessa direzione del ministero dei beni culturali.

2 - dal lat. qualĭtas -atis, der. di qualis «quale» secondo il modello del gr. ποιότης «qualità» da ποῖος «quale» Proprietà che caratterizza una persona, un animale o qualsiasi altro essere, una cosa, un oggetto o una situazione, o un loro insieme organico, come specifico modo di essere, soprattutto in relazione a particolari aspetti e condizioni, attività, funzioni e utilizzazioni





































































































































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Magazine of Sustainable Design (Quadrimestrale on line sul progetto di città sostenibile)
Edizione SCUT, Università Chieti-Pescara
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