Dossier: Il progetto urbano per i centri minori. Opinioni a confronto

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Francesco Monaco
ANCI
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Q1. Della utilità del progetto urbano

Le esperienze di questi ultimi anni ci dicono che lo strumento del progetto urbano è sempre meno praticato dalle nostre amministrazioni comunali, soppiantato dal ricorso a singoli interventi, immediatamente cantierabili, non importa se frammentari e slegati da una visione d’insieme della città e del suo futuro. Questo accade soprattutto nelle realtà urbane più complesse, ma in qualche misura si riscontra anche nei centri minori dove tutto dovrebbe essere più facile.
Si tende a sacrificare il valore aggiunto portato dal progetto urbano (comunque inteso, come strategia d’intervento che traguarda le singole azioni anche disgiunte in una prospettiva coerente e condivisa per un’idea di città al futuro) a favore di un empirismo fattuale che induce a preferire la concretezza del presente (le risorse attivabili, gli interessi da soddisfare, i risultati immediatamente tangibili a ristoro degli investimenti fatti) senza interrogarsi sulla effettiva utilità e significatività urbana dei progetti in campo.
In queste condizioni, i progetti urbani sono ancora attuali? Esistono ragioni robuste per sostenerne la utilità, contro le crescenti derive del “presentismo” che producono vari episodi puntuali spesso contraddittori nell’insieme? Oppure dobbiamo rassegnarci alla loro rinuncia?

Limito la mia risposta alla materia di cui mi occupo nel mio lavoro in ANCI, la politica di coesione dell’Unione Europea. Definita dagli artt.174 e ss del Trattato essa è la principale leva nelle mani del policy maker per chiudere i divari di sviluppo fra i Paesi UE e i diversi territori (regioni, città e zone non urbane) di cui essi si compongono. Tale obiettivo è peraltro direttamente riconducibile all’art.3, comma secondo, della Costituzione italiana nonché all’art. 119 della stessa, dove al quinto comma, si prevede che lo Stato per promuovere lo sviluppo economico e la coesione, rimuovendo gli squilibri territoriali, “destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”. Questo, in effetti, avviene attraverso la programmazione pluriennale del Fondo sviluppo e coesione (FSV) e con le risorse rese disponibili dal bilancio comunitario con i Fondi FESR, FSE e FEASR. In quest’ambito gli interventi di sviluppo urbano sostenibile (SUS), sono assicurati dall’art.7 del Reg. CE n°1301\2013 con una riserva minima del 5% dei relativi programmi FESR e attraverso interventi integrati territoriali (ITI), previsti dal regolamento generale di coordinamento dei fondi (art.36 del reg. CE n°1303\2013).
Nei fatti la dimensione urbana e territoriale della politica di coesione, in Italia, è stata declinata con la definizione di un’Agenda urbana (articolata in un programma nazionale per le 14 città metropolitane - identificate dalla legge Delrio e dalla legislazione di due delle regioni a statuto speciale - e negli interventi destinati alle città capoluogo, identificati negli assi urbani dei programmi operativi delle Regioni) e la sperimentazione della Strategia nazionale per le aree interne, rivolta ai Comuni lontani dai poli urbani di erogazione dei servizi di cittadinanza (istruzione, salute, mobilità) e a rischio spopolamento.
Sul tema dell’Agenda urbana, si ritiene necessario rafforzare lo sviluppo territoriale integrato, anche nel quadro dello sviluppo urbano sostenibile, al fine di affrontare più efficacemente le sfide economiche, ambientali, climatiche, demografiche e sociali delle città e delle “aree urbane funzionali,” che pur non presenti nella programmazione in essere, rappresentano un ambito necessario di intervento del futuro ciclo 2021-2027. Peraltro alle città e alle “aree urbane funzionali”, beneficiarie degli interventi, viene attribuita la qualità di “autorità urbana-organismo intermedio” con ampie deleghe gestionali conferite dalle autorità di gestione e relative all’attuazione dei rispettivi piani di intervento.
Da questo punto di vista, il ricorso a “progetti urbani”, come definiti in premessa, in ambito coesione non solo continua ad essere attuale, ma è persino indispensabile. La dimensione strategica incorporata in tali progetti urbani così caratterizzati  (variamente denominati con terminologia a-tecnica: piani urbani, piani integrati, programmi di intervento, piani strategici, ecc. ma tutti richiamantesi ai concetti di dimensione strategica e di capacità di integrazione fra diverse operazioni, materiali e immateriali, da realizzarsi in una logica funzionalità e sostenibilità tecnica-finanziaria oltre che ambientale e sociale), infatti, non solo contrasta efficacemente il “puntualismo” di tante iniziative praticate in ambito di politiche ordinarie tramite il ricorso a bandi o a mere ripartizioni di risorse attivabili sulla base di interventi “cantierabili”, ma rappresenta il principale strumento per costruire una cornice programmatoria e pianificatoria utile a conseguire efficacemente i risultati attesi degli investimenti urbani da parte dei cittadini e delle imprese che vivono e operano nelle nostre città.

Q2. Della fattibilità

Non c’è dubbio che la crisi del progetto urbano sia imputabile ai suoi limiti nella concezione e messa in forma delle previsioni d’intervento, oltre che naturalmente alle condizioni più complessive che ne possono pregiudicare la fattibilità economico-finanziaria, amministrativa e sociale.
Così ad esempio la crisi prolungata del mercato immobiliare frena investimenti pubblici e privati troppo complessi e a elevato rischio per i ritorni dei capitali impiegati. I progetti inoltre richiedono una varietà di strumenti giuridico-amministrativi, anche di natura pattizia, per far fronte alla notevole diversità delle situazioni in gioco, e comunque costringono a prendere notevoli responsabilità con decisioni partecipate. Infine, le conflittualità che insorgono in un progetto di maggiore complessità inducono a difficili strategie di costruzione del consenso e di compensazione degli interessi in gioco, che la politica spesso preferisce evitare.
Quali sono a suo avviso le ragioni che più ostacolano oggi il successo dei progetti urbani? È possibile fare qualcosa per rimuovere questi impedimenti?

Come detto in precedenza il “progetto urbano”, inteso come quadro strategico che contiene gli elementi per realizzare interventi integrati territoriali, a scala urbana funzionale, adeguati a realizzare obiettivi di miglioramento della qualità nei servizi di cittadinanza e nella infrastrutturazione, materiale e immateriale, delle città, anche nella logica della sostenibilità (ambientale, sociale e tecnico-finanziaria) – cosa che implica la necessaria compartecipazione gli investimenti (ed alla loro gestione) di operatori privati, attraverso schemi di partenariato pubblico-privato (PPP) – costituisco il principale ed indispensabile strumento di intervento dell’Agenda urbana, così come definita dalla politica di coesione di ispirazione europea.
Le ragioni che tuttavia ostacolano il pieno dispiegarsi dei risultati attesi del progetto urbano (in termini di veloce attuazione ed efficacia) sono molteplici. Alcune derivano dalla complessità del quadro regolamentare comunitario all’interno del quale essi vengono concepiti (estrema estensione della catena di programmazione, complessità della “governance multilivello”, eccessiva normazione del sistema di gestione e di controllo, ecc.); le più importanti tuttavia si annidano nelle vischiosità che presenta l’ordinamento italiano sul tema della programmazione e attuazione di investimenti territoriali.
Solo per rimanere ai meri titoli delle questioni in gioco, si richiamano:  le problematiche che afferiscono alla capacità finanziaria degli enti beneficiari per attivare le necessarie azioni di progettazione, nei vari formati in cui essa è richiesta; la difficoltà ad incorporare negli strumenti di pianificazione e programmazione ordinari (il DUP, su tutti) gli investimenti cofinanziati da risorse aggiuntive (non di bilancio); il faticoso iter si attuazione che compone il ciclo di progetto e i relativi tempi di transizione da una fase all’altra, incompatibili con quelli richiesti dai cronoprogrammi delle opere finanziate; le difficoltà applicative del nuovo codice dei contratti, anche con riferimento alla mancanza di competenze tecnico-finanziare necessarie ad attivare schemi e procedure di partenariato pubblico-privato ivi previste; la gravosità per i beneficiari di organizzare le funzioni “addizionali” di rendicontazione e certificazione della spesa, secondo gli standard richiesti dei manuali di controllo dei fondi comunitari; l’impossibilità di aver potuto ricorrere al ricambio di personale negli uffici preposti per effetto delle misure di turn-over imposte dalle misure di consolidamento del bilancio pubblico; ecc.
La complessità delle questioni richiamante è da anni sotto osservazione ed oggetto di progetti di riforma risalenti della macchina pubblica. Al di là degli esiti che l’azione di riforma avrà nei prossimi anni, la strada della semplificazione e del rafforzamento della capacità istituzionale e amministrativa di tutti i livelli amministrativi che compongono la “governance multilivello” del nostro ordinamento appare obbligata. È indubbio, comunque, che la rimozione degli ostacoli sopra brevemente richiamati sia condizione essenziale per ridare forza agli investimenti pubblici nelle nostre città.

 

Q3. Idee per il futuro

EWT ritiene che il rilancio del progetto urbano sia possibile solo a condizione di innovarne profondamente la concezione, i contenuti, e la stessa metodologia di elaborazione. Nelle attuali condizioni di incertezza e di imprevedibilità delle dinamiche urbane, c’è bisogno di progetti processuali, flessibili ed evolutivi, piuttosto che di un disegno rigido e vincolante a medio-lungo termine attraverso cui fissare in modo normativo le forme, gli assetti e le stesse intese pubblico-privato che sostanziano il progetto. La stessa forma del progetto è destinata a cambiare, come convergenza progressiva di una moltitudine di azioni preferibilmente place-based e people-driven, spesso multiscalari ed eterogenee tra loro, ma comunque accomunate dalla coerenza rispetto a una visione di futuro sufficientemente condivisa. Come rendere compatibili gli obiettivi assunti inizialmente (qualità, prestazioni funzionali, equa remuneratività degli investimenti) con i necessari aggiustamenti in corso d’opera diventa il tema centrale del progetto, un tema particolarmente ostico a cui comunque non è possibile sfuggire.
Muovendo dalle esperienze positive fatte per i centri minori, quali sono a suo avviso le innovazioni da apportare al progetto urbano in Italia per migliorarne la efficacia, la fattibilità, e la qualità dei risultati?

Sul campo delle “buone pratiche”, a mio modesto avviso, bisogna innanzi tutto essere consapevoli che in materia di politiche territoriali il concetto mal si attaglia, poiché ogni territorio (e questo vale specie per l’Italia e la sua particolare conformazione orografica) ha una storia a sé, caratteristiche distintive e specificità che non possono essere trattate dentro schemi pre-costituiti altrove.  
L’esperienza di politica territoriale che offre maggior spunti, almeno sotto il profilo del metodo, su cui è possibile lavorare anche per migliorare l’efficacia del “progetto urbano” è la Strategia nazionale per le aree interne (SNAI).
L’usabilità, in ambito politiche urbane, degli elementi di metodo emersi da SNAI è giustificato se si osservi il processo di trasformazione che sta investendo le città e lo “spazio urbano”, causa la globalizzazione e l’affermazione generalizzato del nuovo paradigma tecnologico.
La novità è costituita dalla comparsa di un nuovo concetto di urbanità che, sulla scorta dei più recenti studi di sociologia urbana e geografia territoriale, abbraccia in un unicum centro, periferia, spazio rurale o interno e\o tutto quello che un tempo veniva tradizionalmente collocato “fuori” dalla città e trattato a parte.
La ricerca scientifica attuale (ma non solo), invece, propone diverse definizioni di ciò che in tempi di globalizzazione è la “città” o “area urbana”, mettendo in discussione la distinzione classica appunto tra aree urbane, metropolitane e rurali e introducendo nuovi termini quali “postmetropoli”, “rururbano”, “post suburbano”, “flexcity”, “iperville” o “città senza un fuori”.
Da questo punto di vista è rilevante provare ad applicare gli elementi di innovazione adottati dal SNAI anche all’ambito dello sviluppo urbano sostenibile. Mi limito a segnalarne uno, fra i più importanti.
Si tratta di un’innovazione di metodo, con profonde implicazioni anche organizzative per il policy maker, peraltro definita in radicale rottura con l’approccio tradizionale delle politiche di sviluppo locale promosse in Italia fin dalla fine degli anni novanta del secolo scorso e che può essere sintetizzata nella prescrizione di non programmare più interventi per lo sviluppo locale senza collegarli a contestuali interventi volti ad assicurare il godimento pieno dei diritti di cittadinanza nei territorio target. Non pensare più, cioè, nei progetti territoriali a soli “incentivi economici”, magari compensativi, per stimolare la crescita e l’occupazione sul territorio, ma connetterli ad una contestuale e seria azione di rafforzamento dei servizi di base (istruzione, salute, mobilità), coniugando in ogni intervento rivolto al territorio la dimensione dello sviluppo con quella della cittadinanza.
Anche in campo urbano, per migliorare fattibilità efficacia qualità dei risultati dell’aione pubblica, questo significa formulare progetti che stimolino selettivamente non soltanto la competitività delle aree centrali o si concentrino solo su obiettivi di inclusione sociale, tramite azioni di rigenerazione del margine (periferia), ma sappiano invece guardare complessivamente ai problemi e alle opportunità offerte dal territorio sull’intera scala dell’intervento.