Opinioni a confronto. Tre domande per un possibile Progetto urbano: Esperti

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Mosè Ricci
a cura di Claudia Di Girolamo

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D1. Tra archeologia e urbanistica
Nella varietà delle soluzioni che sono state prospettate fino ad oggi per l’Area Archeologica Centrale di Roma, uno dei temi decisivi e più controversi riguarda il senso primario da attribuire a questo grande spazio composito dall’immenso valore simbolico, storico e culturale e al tempo stesso ricco di straordinarie valenze di animazione urbana e di attrazione turistica. Nella visione al futuro dell’area dei Fori e del suo immediato intorno urbano, sono da confermare le condizioni attuali? Oppure si devono privilegiare gli obiettivi della conoscenza archeologica e conseguentemente un uso condizionato delle nuove aree di scavo, destinate poi a diventare un parco archeologico recintato e sorvegliato? O ancora devono essere mantenute e migliorate le funzioni di attrazione urbana, lasciando lo spazio a disposizione delle molteplici popolazioni che lo affollano nei diversi tempi e lo usano come uno dei luoghi dove la città incontra gli strati più profondi della sua lunga storia? È possibile insomma conciliare archeologia e urbanistica? A quali condizioni?

Non ho una risposta precisa. E’ chiaro che la domanda è pretestuosa nel contrapporre tre diversi scenari e poi spinge verso la terza risposta che è la più stimolante. L’integrazione completa tra città e area archeologica senza recinzioni o specializzazioni funzionali sarebbe auspicabile. Certo sofisticati sistemi di controllo non potranno essere evitati, ma forse non bisogna per forza ricorrere a recinti o ad altri dispositivi fisici. Immaginare una protezione immateriale oggi è possibile e un sistema “misto”, attivabile solo in caso di rischio elevato, potrebbe rappresentare una condizione accettabile. L’idea che i parchi archeologici debbano essere necessariamente confinati e accessibili solo con biglietto e a determinate ore del giorno potrebbe essere superata. Specialmente quando la connessione tra la città e le sue rovine è così profonda come nel caso di Roma. Se, per paradosso, si accettasse l’ipotesi che progressivamente tutti i siti a rischio come anche quelli storici e i luoghi della memoria fossero condizionati nella fruizione e protetti da recinti fisici dopo la Roma archeologica si dovrebbero gradualmente sterilizzare le funzioni urbane anche in quella rinascimentale -tra Palazzo Massimo alle Colonne e Palazzo Farnese (dove già non ci si può più sedere sulla panca di facciata ..), per esempio- e poi nel Tridente barocco di Piazza del Popolo in rigida sequenza temporale … e via di seguito. Perché no? Chi decide il limite temporale oltre il quale parte della città deve essere messa dietro le sbarre? Si tratta di una soglia assoluta o relativa, con gli anni si estende o resta uguale? Il dominio ostinato dell’idea di vincolo come protezione, congelamento ed estraneazione sociale può rappresentare un rischio reale per la conservazione del significato proattivo della città di Roma. Il suo senso risiede nel valore della sua storia nel tempo presente e nella capacità di resilienza delle sue tracce apprezzabili. Roma è una città infinita non per l’estensione ma per la continua ri-significazione delle sue parti più antiche che rimangono sempre centrali nelle pratiche, nella cultura e negli immaginari della società che le abita. Ogni separazione rigida tra città insediata e città archeologica è in qualche modo fittizia. Deprime sia il valore sia della città che quello del suo patrimonio storico archeologico condannandolo all’assenza di vita.


D2. Del possibile Progetto urbano
Nonostante il conflitto ancora irrisolto delle visioni e i numerosi fallimenti progettuali finora incontrati, non c’è dubbio che sia diventato ormai urgente dotarsi di un Progetto urbano credibile e alla scala giusta, per indirizzare in modo coerente i diversi interventi che a vario titolo investono l’Area Archeologica Centrale. Ma la forma tradizionale del Progetto urbano, come disegno compiuto di un assetto fisico-funzionale a medio-lungo termine, appare ormai del tutto inadeguata a guidare le trasformazioni future. C’è piuttosto da immaginare una convincente visione per l’avvenire dell’Area; e poi l’avvio di un processo di progettazione aperto, finalizzato al conseguimento della visione prefigurata: in pratica una combinazione flessibile ed evolutiva di interventi multiscalari, traguardati in funzione della visione assunta. La visione dovrebbe essere condivisa quanto più possibile dalla città, dalle istituzioni e dall’opinione pubblica internazionale, e alimentata operativamente dalle ingenti risorse attivabili in presenza di un progetto ben costruito e affidabile. Quali dovranno essere i temi più rilevanti del nuovo Progetto urbano per l’Area archeologica centrale di Roma, quale la sua forma e soprattutto quali le modalità d’attuazione possibili, nella nostra epoca sempre più dominata dall’incertezza e dall’imprevedibilità per il futuro?

Non credo che il progetto urbano tradizionale cioè quello dei nuovi assetti spaziali possa rappresentare la soluzione. Il progetto dell’esistente interviene in ambiti già spazialmente definiti o anche, come nel caso del parco archeologico, in continua mutazione per effetto dei sovvertimenti e delle nuove scoperte dovute agli scavi. Questi luoghi non possono e non devono essere imbalsamati. La loro urbanità sta nell’essere in qualche modo centrali nei processi di vita a Roma e non nell’idea modernista della ricomposizione di un presunto disegno/modello di coerenza con la città. Cambiarne i connotati fisici per fissarli in una nuova sistemazione spaziale spesso non serve e porta via inutilmente molto tempo e molte risorse. Il progetto dello spazio aperto dei fori e del Parco Archeologico Centrale deve passare dalla forma al senso e basarsi sulla definizione di un nuovo contesto teorico/pratico di riferimento concettuale più adattivo e sintetico che probabilmente non è la città ma il suo paesaggio. I temi rilevanti per gli interventi di qualità fanno riferimento poi a categorie o paradigmi tra loro non oppositivi che, anzi, quasi sempre si integrano.
Il paradigma del progetto come narrazione esprime la necessità di caricare di significati il progetto dell’esistente, di far scoprire con nuovi occhi quello che già c’è. Come scriveva Giancarlo De Carlo il progetto deve essere capace di ascoltare, accogliere, annettere quelle che sono le tensioni della città e dei suoi abitanti. Un’architettura che deve farsi “processo”, scardinando la visione consolidata dell’edificio come un unicum perfetto e concluso. Ma anche in senso etimologico stretto la narrazione svela significati diversi, racconta la storia dei luoghi e di chi li abita attraverso i segni della loro ri-significazione.
Il progetto come azione sociale è la questione al centro di molti lavori contemporanei. Come scrive Alejandro Aravena nel catalogo della Biennale 2016: “…We would like to learn from architectures that despite the scarcity of means intensify what is available instead of complaining about what is missing…”  Il progetto come azione sociale si realizza come obiettivo di emancipazione e spesso attraverso processi di progettazione condivisa più che di partecipazione. Il concetto tradizionale di autorialità viene messo in discussione dalla condivisione del processo creativo e spesso il processo attuativo è autogestito e hic et nunc. Talvolta supera o sovverte i tempi burocratici lunghi delle approvazioni e delle concessioni pubbliche.
Il progetto come prestazione è il paradigma tecnologico declinato come principio concettuale di estetica operativa. L’architettura di prestazione versus l’architettura di segno o di funzione significa mettere al centro della trasformazione prevista non l’uso ma il risultato innovativo apprezzabile in termini prevalentemente ecologici, ma non solo. Il principio prestazionale proietta l’architettura nella contemporaneità facendola diventare terminale o interfaccia di un sistema di relazioni fisiche o immateriali che ne sostanziano l’esistenza. E’ la ri-contestualizzazione dell’idea di progetto all’interno di uno spazio di intervento nuovo e non necessariamente materiale.
Si tratta di tre punti di vista sull’architettura come espressione di bellezza per nella città del presente più che di quella di un futuro che spesso non arriva mai. Narrazione, azione sociale e prestazione prendono a riferimento l’esistente come nuovo contesto di intervento e operano per aggiunte e sottrazioni, perseguendo la sostenibilità e la convenienza reale senza alcuna preoccupazione autoriale né da parte dei committenti né dei tecnici coinvolti, ma facendo convergere le idee e gli attori su una visione condivisa e non procrastinabile.


D3. Un programma a breve
Intanto che si discute la visione programmatica sono in corso interventi eterogenei ed emergenziali che rischiano di modificare in modo rilevante lo stato dell’area, prima ancora di avere a disposizione una prospettiva convincente per il progetto d’insieme, mirato a migliorare l’assetto complessivo evitando gli effetti controproducenti di interventi estemporanei o troppo settoriali. In particolare alcune questioni aperte che attendono risposte tempestive riguardano: a. l’inserimento della nuova stazione della linea C della metropolitana; b. la sistemazione dello scavo degli Auditoria di Adriano a piazza Venezia; c. la disciplina del traffico dei bus turistici; d. la regolazione dell’uso di via dei Fori imperiali; e. come far fronte al persistente degrado indotto da presenze abusive che involgariscono tutta l’area. In attesa della definizione del Progetto urbano complessivo, quali sono a suo avviso le azioni più urgenti da intraprendere? E chi dovrebbe farsene carico?

La messa in sicurezza dei resti e dell’area in una visione integrata alla città che prevede una sostenibile e progressiva eliminazione delle barriere è la base per il progetto urbano o, meglio, per il progetto di paesaggio dell’area dei Fori. Forse il tema fondamentale del progetto di questo spazio aperto è proprio: come tradurre la messa in sicurezza in una proposta paesaggistico architettonica per il Parco Archeologico Centrale. Diversamente come notavo prima dall’idea stessa della “sistemazione” spaziale tout court che invece mi sembra contraddittoria con quelle dello scavo e della scoperta che prevedono il continuo movimento … Gli scavi sono per fortuna ininterrotti e irriducibili a una forma definita. Le installazioni del Foro di Augusto e del Foro di Cesare dimostrano come l’intervento più efficace sui Fori sia spesso quello immateriale che lavora sulla narrazione, sulla realtà aumentata, sulla luce e sugli immaginari degli utenti. Queste installazioni ricostruiscono e fanno percepire lo spazio di era imperiale molto meglio di qualsiasi intervento fisico di anastilosi o, appunto, di ri-sistemazione. Esplorando le rovine del Foro di Cesare con una cuffia per sentire il racconto di Piero Angela, un telecomando per attivare le ricostruzioni virtuali di Paco Lanciano e le luci di Vittorio Storaro che rendono l’esistente protagonista del quadro immateriale complessivo si capisce finalmente lo spazio e sembra di viverne l’atmosfera originale. Molto meglio, e molto di più che dalle ricostruzioni bibliografiche o da quelle fisiche direi. Il degrado e le presenze abusive vanno poi contrastate ed eliminate ma il vero problema alla fine non è quello di fare pulizia delle intrusioni sociali in questi luoghi quanto più dell’incuria e della distrazione di chi li gestisce. Provvisorietà, autodeterminazione e varietà sociale sono una ricchezza, una parte vitale della città. Non si può affermare di voler integrare città e parco e mettere delle fioriere di cemento come propilei a protezione dell’ingresso di via dei Fori Imperiali. Transennare il Pantheon, via della Conciliazione e Palazzo Farnese con le barriere stradali antitraffico bianche e rosse. Far girare il centro antico di Roma in giga-bus turistici (che con le loro emissioni e con le vibrazioni causate distruggono aria, strade, ponti e monumenti). E poi scandalizzarsi per pochi pittoreschi centurioni e gladiatori abusivi o per i venditori di street food. Si possono invece fissare anche per loro condizioni e livelli di qualità irrinunciabile. Che le divise siano filologiche per esempio e i neo centurioni/gladiatori in grado di dare informazioni turistiche o storiche. Che i furgoncini per il cibo da strada siano tutti Ape e tutti di colore rosso imperiale, sempre per esempio… Ma prima di tutto via i vasi in cemento, i giganteschi bus turistici e le barriere antitraffico bianche e rosse dal Centro di Roma!  Insomma questi sono esempi paradossali, ma credo che possano rappresentare bene i temi e i materiali fondamentali del progetto delle aree archeologiche che riguarda non solo gli spazi fisici, ma la qualità globale e le strategie di integrazione urbana del Parco. Si tratta di scelte progettuali che da subito possono essere adottate, a costi contenuti e spesso a carico dell’utente stesso. … Se invece il nuovo progetto per l’Area Archeologica Centrale di Roma ritenesse marginali e non architettoniche le questioni dell’apertura e in sicurezza, del decoro delle barriere e delle attrezzature, dei bus turistici. Se tenesse soprattutto ad affermare le idee tradizionali di vincolo e di giurisdizione extraterritoriale e quella moderna di una nuova forma per gli spazi fisici del parco come hanno fatto fin qui con i valzer delle attribuzioni di competenze e i progetti promossi e presentati per il parco archeologico centrale … allora meglio non chiedere un altro nuovo progetto e non farlo. Tenemose i gladiatori!