Opinioni a confronto. Tre domande per un possibile Progetto urbano: Istituzioni

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Luca Montuori
a cura di Anna Laura Palazzo e Tiziana Casaburi
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D1. Tra archeologia e urbanistica
Nella varietà delle soluzioni che sono state prospettate fino ad oggi per l’Area Archeologica Centrale di Roma, uno dei temi decisivi e più controversi riguarda il senso primario da attribuire a questo grande spazio composito dall’immenso valore simbolico, storico e culturale e al tempo stesso ricco di straordinarie valenze di animazione urbana e di attrazione turistica. Nella visione al futuro dell’area dei Fori e del suo immediato intorno urbano, sono da confermare le condizioni attuali? Oppure si devono privilegiare gli obiettivi della conoscenza archeologica e conseguentemente un uso condizionato delle nuove aree di scavo, destinate poi a diventare un parco archeologico recintato e sorvegliato? O ancora devono essere mantenute e migliorate le funzioni di attrazione urbana, lasciando lo spazio a disposizione delle molteplici popolazioni che lo affollano nei diversi tempi e lo usano come uno dei luoghi dove la città incontra gli strati più profondi della sua lunga storia? È possibile insomma conciliare archeologia e urbanistica? A quali condizioni?

Dell’Area Archeologica Centrale mi sono occupato come Architetto, come Professore e oggi come Assessore, paradossalmente in maniera più puntuale che sistemica. Secondo me ciò che manca oggi sull’Area Archeologica Centrale è la possibilità di un dibattito che sappia andare oltre lo sguardo al passato (penso sempre al dipinto di Paul Klee, Angelus Novus, che va in una direzione e guarda nell’altra, figura ormai abusata dagli Architetti). Su questo luogo, non si riesce a pensare alla città come vuole diventare. E questo “come vuole diventare” non può che basarsi su come era, sul riconoscimento di tutta una serie di relazioni tra la parte est e la parte ovest della città, sui percorsi. La si guarda amministrativamente come luogo isolato; per esempio, l’istituzione del Parco sottrae ancora un pezzo (solo un pezzo e non l’altro) alla città e lo isola come un dato archeologico a sé stante. Come molti hanno detto, “l’archeologia e il turismo sono il petrolio di questa città”, ma è un petrolio che, diciamolo, se non è anche parte della città non va da nessuna parte!
Sarebbe necessaria oggi una discussione che azzeri posizioni ideologiche, che guardi a questa parte di città come a una parte che ha il destino di tenere insieme il passato e il futuro. Dopotutto, la grande invenzione di avere al centro della Capitale d’Italia un grande vuoto, invece di un grande palazzo reale, è stata una scelta unica in Europa. Il centro in realtà è la relazione tra il Colosseo e Piazza Venezia, spazio ad oggi incomprensibile per i turisti e per gli stessi romani. Se, come ho avuto occasione di fare nella mia attuale posizione, si sale ai piani superiori del Campidoglio, si può vedere dalle finestre del Tabularium il Foro Romano. Da quella posizione è finalmente comprensibile il Foro, molto meglio che percorrendo via dei Fori Imperiali: si vede la via Sacra, si comprende la collocazione dei templi e la Basilica di Massenzio. Tuttavia, non si può ragionare attraverso il dato ideologico della cancellazione di via dei Fori Imperiali: sarebbe bene, intanto, che la cultura italiana facesse seriamente i conti con il suo passato prossimo; abbiamo visto il drammatico dibattito scatenato dagli americani sull’abbattimento dei simboli del fascismo ancora dopo settant’anni, come se il problema fosse questo e non il riconoscimento vero della modernità. Una delle iniziative più entusiasmanti che ho avuto occasione di presiedere è stata l’inaugurazione del grande murales restaurato di Sironi nell’Aula Magna della Sapienza. Sironi, pittore che certamente ha avuto più vicinanza di altri con il regime, è tra gli artisti dell’epoca,  colui che meglio ha incarnato il significato della modernità nell’estetica. Tanto che Picasso, che sicuramente non era sospettabile di vicinanze con i regimi di destra, lo definì “uno dei più grandi artisti viventi”. Allo stesso modo, dobbiamo guardare alla città e fare i conti con la trasformazione portata dalla via dei Fori nella topografia romana e nel sistema dei percorsi che legavano il quartiere Monti al Foro.
E’ innegabile che le migliori stagioni dell’Area Archeologica Centrale sono state quelle in cui era attraversabile come parte della città; e dunque ribadisco che archeologia e urbanistica “si devono conciliare”, non “si possono conciliare”.  Si potrebbe pensare a un spazio pubblico limitando l’ingresso a pagamento a luoghi specifici o a mostre ed eventi, per quanto riguarda la bigliettazione: oggi, con la tecnologia, si possono immaginare dei biglietti o una carta che permetta di accedere a quanto prenotato. Ad esempio, dovrebbe essere possibile andare a piedi da Piazza Madonna dei Monti all’ospedale sull’isola Tiberina, o all’Anagrafe, attraversando l’Area Archeologica.


D2. Del possibile Progetto urbano
Nonostante il conflitto ancora irrisolto delle visioni e i numerosi fallimenti progettuali finora incontrati, non c’è dubbio che sia diventato ormai urgente dotarsi di un Progetto urbano credibile e alla scala giusta, per indirizzare in modo coerente i diversi interventi che a vario titolo investono l’Area Archeologica Centrale. Ma la forma tradizionale del Progetto urbano, come disegno compiuto di un assetto fisico-funzionale a medio-lungo termine, appare ormai del tutto inadeguata a guidare le trasformazioni future. C’è piuttosto da immaginare una convincente visione per l’avvenire dell’Area; e poi l’avvio di un processo di progettazione aperto, finalizzato al conseguimento della visione prefigurata: in pratica una combinazione flessibile ed evolutiva di interventi multiscalari, traguardati in funzione della visione assunta. La visione dovrebbe essere condivisa quanto più possibile dalla città, dalle istituzioni e dall’opinione pubblica internazionale, e alimentata operativamente dalle ingenti risorse attivabili in presenza di un progetto ben costruito e affidabile. Quali dovranno essere i temi più rilevanti del nuovo Progetto urbano per l’Area archeologica centrale di Roma, quale la sua forma e soprattutto quali le modalità d’attuazione possibili, nella nostra epoca sempre più dominata dall’incertezza e dall’imprevedibilità per il futuro?

Il grande tema di quest’area è che non può permettersi di tagliare in due la città, ma deve essere una sua parte; le sensibilità vanno in questa direzione.
Sarebbe interessante anche che, nel suo fondersi con la città, coinvolgesse tutta una serie di punti all’intorno; penso a Palazzo Rivaldi, su cui sembra che si riesca ad arrivare a una progettualità in grado di riaprirla alla città (a cura della Soprintendenza di Stato), penso anche agli edifici sulle pendici del Celio, che oggi sono chiusi, da immettere in un sistema di relazioni di musealizzazione, con punti di informazione, e accessibilità molteplici e diffuse.
C’è però una contraddizione: mentre si discute tanto della pedonalizzazione dei Fori Imperiali, all’intorno dell’Area Archeologica la situazione è ben diversa. Penso a via di San Gregorio e alla via del Parco del Celio, o a via dei Cerchi, strade tuttora adatte e impiegate per il passaggio dei pullman turistici, mentre intorno all’Area Archeologica Centrale stiamo pensando ad azioni come il restringimento delle sezioni stradali e il “favoreggiamento” della pedonalizzazione, così come abbiamo deliberato azioni concrete per ridurre i pullman turistici, a partire dal 2019.
Ad oggi è evidente che l’ingessamento del dibattito lascia spazio al turismo selvaggio, senza alcuna qualità e che non porta alla città alcuna ricchezza. Questo è tipico di tutta la situazione romana, in cui il tentativo di bloccare o modificare una consuetudine lascia spazio all’aspetto peggiore.
Io immagino che il progetto urbano dovrebbe prevedere per quest’area una serie di funzioni in grado di rivitalizzare il carattere pubblico di questo luogo; quindi spazi per biblioteche, mediateche aperte ai cittadini… I romani se ne vanno da questi quartieri perché soverchiati da un turismo mordi e fuggi, non di qualità, non di qualcuno che vive in maniera esperienziale la città: viene, non guarda, non capisce nulla del Foro della Pace.
Questa è un’esperienza che va fatta nei giorni, cercando di capire che quello spazio è una rappresentazione di quanto è successo nel tempo, che quello che vediamo è una costruzione culturale. Invece siamo circondati di B&B che trasformano il senso stesso del centro storico, mentre mi sembra che ci siano alcune città europee che si stanno già attrezzando a limitare il turismo, non ad attrarlo. Sembra, da una stima, che ci siano 140 milioni di cinesi che non vedono l’ora di venire a Roma e dovremmo, forse, trovare un modo adeguato per accoglierli.
L’altra grande difficoltà di Roma è che questo sistema di spazi pubblici dovrebbe convivere con una forma di imprenditorialità, anche privata, che ne permette la vita; altrimenti, se continuiamo a pensare alle politiche urbane come misure in cui il pubblico si oppone al privato, siamo sicuramente perdenti. Come se fosse solo il pubblico che deve fare certe cose… Il pubblico deve indirizzare, strutturare le politiche; il privato deve trovare, dentro queste politiche, gli spazi per poter realizzare un profitto giusto. Appena si parla di trasformazione urbana tutti si sentono pronti a essere “piccoli Trump”: ho un pezzetto di terra, sicuramente ci devo fare soldi, invece di un profitto, il giusto profitto, che sia legato anche alla qualità delle trasformazioni. Sicuramente questa è una delle politiche che si potrebbero attivare.
Stiamo attualmente ragionando sulla fermata della metropolitana “Fori Imperiali”, probabilmente la più importante del mondo, almeno fintanto che non realizzeranno la fermata “Piramidi” (non Piramide, Piramidi al Cairo); pensarla, come sino ad oggi è stata pensata, come un dato tecnico e non come un pezzo di città, è stato un errore del passato. C’è stato un momento in cui, legato alla metropolitana, si era immaginato uno spazio, un centro servizi. Poi anche quello è stato oggetto di discussioni e battaglie: qualcuno pensa che non ci debba essere solo un unico centro servizi ma diversi; il risultato è, appunto, una fermata della metropolitana studiata come se fosse la fermata di una metropolitana qualsiasi. Questa sarebbe invece proprio un’occasione di sperimentazione di forme di partenariato pubblico privato. L’idea di trasformare il progetto della stazione non con interventi strutturali pesanti, oggi non più attuabili, ma, quantomeno immaginando una sua configurazione possibile, conduce a un progetto per il software, non per l’hardware, diciamo. Una sistemazione che le dia la dignità di una grande stazione, della stazione più importante del mondo. Lo hanno fatto i francesi a Parigi, con la fermata “Louvre”, dove le sostruzioni del Louvre sono state messe in evidenza; lo abbiamo fatto noi con la fermata “San Giovanni” e con il un progetto per la fermata “Amba Aradam”… E’ necessario che si trovi il modo, anche per la fermata “Fori Imperiali”, di avere una stazione che ci aiuti a leggere e interpretare lo spazio che ci accoglie.
Tra le iniziative sul tappeto, l’idea del Museo della città nella ex-fabbrica Pantanella in Via dell’Ara Massima di Ercole (presso il Circo Massimo) con un progetto della Sovrintendenza Capitolina è a mio avviso di grande significato. Si tratta di uno dei punti simbolicamente più importanti di Roma, da cui si accedeva al Colle Capitolino …di questo non vi è traccia nell’attuale organizzazione dello spazio. Oltre il progetto del museo, bisognerebbe ripensare a questo come il luogo della Roma delle origini, centrale per la comprensione del rapporto tra il Circo Massimo e la Valle del Tevere.
Da poco ha riaperto l’area dell’Arco di Giano, dopo un restauro voluto dalla Sovrintendenza, collegato anche all’apertura del Palazzetto Fendi (la fondazione di Alda Fendi ha restaurato un edificio su progetto di Jean Nouvel), in cui troveranno spazio artisti in residenza.
Questa riapertura dovrebbe permetterci di leggere le connessioni trasversali di Roma.
Adesso si tende a musealizzare tutto quanto con la realtà virtuale: più che di musei noi abbiamo bisogno di un aiuto alla lettura di alcune permanenze che non diventano evidenze fintanto che non vengono spiegate. Non credo che abbiamo bisogno di vedere singoli reperti se non comprendiamo il contesto in cui erano collocati.
Ciò vale anche per il ripristino di alcune percorrenze chiave che ci permettano di leggere il rapporto della città con la sua natura topografica. Anche in questo caso viviamo di contraddizioni: da un lato si chiede la ricostruzione dell’antica topografia di Roma, dall’altro l’introduzione di un elemento di connessione come il ponte degli Annibaldi, che consente anche di immaginare questa topografia senza imponenti trasformazioni, ha scatenato la reazione di parti consistenti della cultura della nostra città, chiamando tra l’altro in causa la modifica del paesaggio urbano. Il Colosseo non è mai stato visto da lontano, è sempre stato chiuso in una valle, questo sta anche a significare quel piccolo manufatto.  A fronte di una incapacità di capire la modernità, non si levano abbastanza voci di parte contraria che dicano: “facciamo un serio dibattito sulla modernità di questo pezzo di città”. Perché avremo sempre qualcuno che ci oppone Cederna, divenuto anche lui un monumento insuperabile del dibattito. Io penso che ormai siamo lontani da Cederna quanto Cederna era lontano da Valadier e da Napoleone III; Cederna non ci ha mai proposto di guardare Napoleone III. Noi, forse, oggi dovremmo pensare a questi come dati storici, da cui imparare qualcosa per comprendere dove stiamo andando, perché in quegli anni non si prevedevano 140 milioni di turisti cinesi. Oggi tra l’altro nessuno immaginerebbe di ricostituire la collina della Velia con la struttura immaginata da Gregotti nel progetto di Benevolo, con quei pilastri a croce; tutti griderebbero alla cementificazione.
Possiamo lavorare attraverso piccole connessioni che ci permettano di rileggere questa struttura e anche di suggerire a un turista, invece di scendere alla fermata “Fori Imperiali” o “Colosseo”, di iniziare il suo percorso di visita dalla fermata “Cavour”: potrebbe così salire a San Pietro in Vincoli per vedere il Mosè di Michelangelo, e percorrere poi un ponticello che ricostruisce virtualmente la Collina Velia sul tracciato della originaria via delle Carine, connettendo Monti con il Foro della Pace, dal cui cantiere stanno emergendo i pavimenti originali. Questo percorso permetterebbe di vedere lo spazio tra la Basilica di Massenzio e il muro del Foro della Pace e di comprendere come si entrava al Foro. Quando Massenzio ha costruito la Basilica, ha dovuto lasciare un piccolo arco nelle sostruzioni per lasciare quel percorso di accesso. Riaprire e far capire, quindi. Quell’arco è una struttura fondamentale, che consente di cogliere le antiche relazioni.
E poi c’è anche una visione moderna interessante, quella che ci ha fornito via dei Fori Imperiali, di oggetti separati dalla topografia; la modernità accoglie la visione cinematica offerta dall’automobile, per sequenze di oggetti separati: uno schizzo di Le Corbusier della via dei Fori Imperiali con il Colosseo, la Basilica di Massenzio, oggetti frammentari, rinvia a quest’altra percezione di Roma, fatta di oggetti, di grandi monumenti, e che quindi ci aiuta a comprendere Piranesi e il suo Campo Marzio.
Queste due modalità di percezione coesistono ormai: dobbiamo lavorare con la politica del “e-e”, introdotta dal post-moderno, invece che con la ideologia del “o-o”: se la post-modernità è finita, questo è un suo lascito, e noi, attualmente, su queste cose possiamo lavorare. C’è l’idea di provare a verificare alcuni restringimenti di strade, ampliamenti di aree pedonali, su cui si sta ragionando: progetti che provengono dall’Agenzia per la mobilità di Roma, poi tradotti anche da molti progetti e idee sull’area, da studi dell’Università di Roma Tre; anche l’Università di Roma La Sapienza sta lavorando su un nuovo grande progetto di ricerca sui Fori.
Credo che il tempo sia maturo anche per avviare un dibattito diverso. Dico anche una piccola banalità: che è costato una fatica enorme aprire al pubblico il percorso che dal Foro di Traiano, passando sotto via dei Fori Imperiali, conduce al Foro Romano, una delle piccole iniziative che abbiamo portato avanti per il Capodanno lavorando con Luca Bergamo all’Assessorato alla Crescita Culturale; è sembrato qualcosa di paragonabile all’apertura di Checkpoint Charlie, uno sforzo davvero grande, replicato anche dall’iniziativa per la presentazione dei progetti del concorso dell’Accademia Adrianea, per cui molto faticosamente abbiamo permesso l’accesso alla Curia Julia da via dei Fori Imperiali.
Questi piccoli segnali, che ovviamente non sembrano nulla, sono segnali di un movimento tellurico che coinvolge le sfere celesti. Quando abbiamo effettuato quel percorso la prima volta, c’era il Soprintendente di Roma, il Sovrintendente Capitolino, il Vicesindaco… e c’è stata l’apertura della barriera che separa la parte di competenza Capitolina da quella dello Stato.
C’è un problema di divisione di oneri, proventi e compiti? Non può diventare un problema di soldi, cioè di fondi, vivere la città. Oramai sentiamo dire che bisogna far pagare l’ingresso al Pantheon, cioè una chiesa di Roma: non bisogna far pagare per entrare nelle chiese, Roma è l’unica città al mondo dove si può entrare senza biglietto in tutte le chiese, ammirare quadri, sculture, spazi. Non bisogna far pagare il Pantheon, perché se lo stacchiamo dalla vita della città i cittadini di Roma avranno ancora più difficoltà a capire che senso ha essere cittadini di Roma. Invece, passeggiare ed entrare un attimo al Pantheon, come fosse una grande piazza, che ancora regge una quantità di turisti, che si distribuiscono benissimo in quel grande spazio, è un lusso che Roma si può e si deve permettere.


D3. Un programma a breve
Intanto che si discute la visione programmatica sono in corso interventi eterogenei ed emergenziali che rischiano di modificare in modo rilevante lo stato dell’area, prima ancora di avere a disposizione una prospettiva convincente per il progetto d’insieme, mirato a migliorare l’assetto complessivo evitando gli effetti controproducenti di interventi estemporanei o troppo settoriali. In particolare alcune questioni aperte che attendono risposte tempestive riguardano: a. l’inserimento della nuova stazione della linea C della metropolitana; b. la sistemazione dello scavo degli Auditoria di Adriano a piazza Venezia; c. la disciplina del traffico dei bus turistici; d. la regolazione dell’uso di via dei Fori imperiali; e. come far fronte al persistente degrado indotto da presenze abusive che involgariscono tutta l’area. In attesa della definizione del Progetto urbano complessivo, quali sono a suo avviso le azioni più urgenti da intraprendere? E chi dovrebbe farsene carico?

Chi dovrebbe farsi carico di un progetto urbano complessivo? La città intera si dovrebbe fare carico di un dibattito per arrivare a una condivisione, a maturare le scelte. Il progetto urbano è semplice, paradossalmente, perché chiaramente non si possono immaginare grandi interventi ma piccole ricuciture. Quindi bisognerebbe poter dibattere serenamente sul senso di questo pezzo di città dentro la città.
Oggi addirittura il nuovo Parco Archeologico ha moltiplicato le competenze. La stazione della metropolitana è un’opportunità che non riusciamo a cogliere anche perché il sistema delle competenze è totalmente schizofrenico. C’è, quindi, una responsabilità della politica che è quella di semplificare, di capire, di avere un interlocutore con cui avviare la discussione. Un primo obiettivo deve essere quello di diminuire la pressione del traffico privato e individuare modalità meno impattanti di gestione dei flussi turistici moltiplicando le accessibilità.
Abbiamo l’area di Porta Capena che potrebbe essere benissimo un’area di ingresso, davanti al Circo Massimo appena riaperto, quindi con una parte di musealizzazione e anche col miglioramento dei percorsi pedonali che è stato realizzato. Da quel punto i turisti potrebbero percorrere a piedi via di San Gregorio, dove oggi le macchine vanno a ottanta, novanta all’ora; qui si potrebbe trovare benissimo un sistema di dissuasione e favorire un ingresso attraverso l’Arco di Costantino, per arrivare al Colosseo. Alcune piccole operazioni si possono immaginare da subito: si potrebbero fare delle azioni simboliche per dare il senso delle iniziative attuabili, dopodiché bisognerebbe tutti partecipare al dibattito.
Per il bene della città, sarebbe opportuno che il dibattito si ampliasse, mentre invece io vedo alcune istituzioni pubbliche che forse non riescono a fare la giusta pressione e non partecipano alla vita culturale della città. È un problema di Roma l’incapacità di decidere di discutere sui temi più importanti in maniera non esasperata.
Inoltre, rimane in sottofondo l’idea della demolizione, avviata già sotto Marino, del sistema Fori, non con un progetto ma pezzo a pezzo. Basta andare lungo la vecchia via Alessandrina ridotta a due tronconi... Far lì un buco di cinquanta metri mi sembra una iniziativa inutile, ingiustificata. Se questo è il mecenatismo è inutile, il mecenatismo in sé non esiste se non è indirizzato su un progetto complessivo, si riduce a un impegno di fondi, mi sono opposto a iniziative simili prima di avere un’idea del sistema nel suo insieme.
Oggi vediamo la chiesa dei Santi Luca e Martina come un monumento isolato e senza senso, non la si raggiunge più da via dei Fori Imperiali attraverso via Bonella che è stata “tagliata” per dare continuità al piano archeologico. Un progetto proposto da Francesco Cellini e Mario Manieri Elia consentirebbe attraverso un ponte in legno di riagganciare la chiesa al suo contesto chiarendo i rapporti visivi e funzionali dell’insieme senza compromettere la quota archeologica.
Anche il progetto archeologico dovrebbe portare con sé un “progetto di spazio”. Il progetto archeologico non è un mondo separato dal resto; oggi la ragione dell’archeologia prevarica qualsiasi altra cosa. Si può immaginare di effettuare uno scavo e togliere i pini di via dei Fori Imperiali, nonostante i pini siano un pezzo importante della cultura di questa città, non solo un problema botanico. Il dato archeologico andrebbe studiato, rilevato e poi inserito in un sistema che ne permetta la leggibilità nel contesto attuale, anche a costo di comprometterne alcune parti. E’ la progettualità ciò che vorremmo dare alla città, con tutti i limiti di una forte necessità di risposte che la quotidianità richiede. Noi viviamo in una città che da tempo ha smesso di pensare in termini di programmazione, ma pensa soltanto in termini di attuazione dei programmi “un tanto al chilo”: tutti i programmi di trasformazione sono stati interpretati come funzionali a dati economici senza curarsi degli impatti sulla vita dei cittadini: una trasformazione è giusta perché produce un indotto, perché migliora il PIL, o perché in prospettiva migliora la vita di chi abita e si sposta quotidianamente nella città? Il benessere, il futuro non vengono mai pensati come obiettivi. Un equivoco ormai smascherato dalla crisi del 2008, una trasformazione che ci obbliga a cambiare modo di agire. Questa è una cosa che la cultura della città chiede, e a cui tutte le istituzioni culturali devono dare il loro contributo. Una visione che vada al di là dei mandati, e che ponga un serio dibattito sulla modernità, su cos’è la città oggi: siamo tre milioni di abitanti e due di turisti…però stanno tutti al Foro Romano!