Opinioni a confronto. Tre domande per un possibile Progetto urbano: Istituzioni

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Eugenio La Rocca
intervista a cura di Filippo Angelucci
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D1. Tra archeologia e urbanistica
Nella varietà delle soluzioni che sono state prospettate fino ad oggi per l’Area Archeologica Centrale di Roma, uno dei temi decisivi e più controversi riguarda il senso primario da attribuire a questo grande spazio composito dall’immenso valore simbolico, storico e culturale e al tempo stesso ricco di straordinarie valenze di animazione urbana e di attrazione turistica. Nella visione al futuro dell’area dei Fori e del suo immediato intorno urbano, sono da confermare le condizioni attuali? Oppure si devono privilegiare gli obiettivi della conoscenza archeologica e conseguentemente un uso condizionato delle nuove aree di scavo, destinate poi a diventare un parco archeologico recintato e sorvegliato? O ancora devono essere mantenute e migliorate le funzioni di attrazione urbana, lasciando lo spazio a disposizione delle molteplici popolazioni che lo affollano nei diversi tempi e lo usano come uno dei luoghi dove la città incontra gli strati più profondi della sua lunga storia? È possibile insomma conciliare archeologia e urbanistica? A quali condizioni?

Il progetto sui Fori Imperiali, impostato dall’amministrazione comunale negli anni ’90 del secolo scorso, aveva condizionato l’assetto definitivo dell’area ai risultati degli scavi archeologici. Per questo motivo, le indagini non hanno interessato il sistema stradale: per intenderci, né via dei Fori Imperiali, né via Alessandrina, né largo Corrado Ricci. Si volevano così evitare le feroci polemiche seguite alla pubblicazione del progetto di Leonardo Benevolo che, fortemente sostenuto dalla Soprintendenza Archeologica di Roma, con il suo intervento dirompente  cancellava con un colpo di spugna gran parte degli interventi di epoca fascista, e propugnava una riproposizione della collina della Velia (che in origine impediva la vista del Colosseo da piazza Venezia), resecata in parte per la realizzazione di via dei Fori Imperiali secondo un asse perfettamente rettilineo. Molti architetti e urbanisti criticarono il progetto che, privilegiando le evidenze monumentali di età imperiale, tendeva a cancellare la stratificazione storica dall’antichità ai giorni nostri, estrapolando alcuni monumenti insigni, come la chiesa dei SS. Luca e Martina o la chiesa dei SS. Cosma e Damiano, dal loro contesto originario, già fortemente snaturato dall’intervento fascista. È il vero motivo per cui il progetto Benevolo non aveva ottenuto un ampio sostegno, in quanto risultava riproporre lo schema del parco archeologico sradicato dal contesto urbano, di cui non teneva nel dovuto conto la lunghissima evoluzione storica.
Quando sono stati ripresi gli scavi nei giardinetti che affiancavano via dei Fori Imperiali, il concetto guida era di comprendere meglio, con l’ausilio di indagini mirate, lo stato di conservazione dei monumenti forensi, e solo sulla base dei nuovi dati procedere a un progetto definitivo di sistemazione dell’area. Secondo il mio parere, non sarebbe stata possibile una sistemazione definitiva senza una migliore conoscenza della planimetria originaria dei Fori Imperiali. Non è un caso che i nuovi scavi abbiano permesso di rivedere le vecchie proposte di ricostruzione dei Fori, che sono risultate erronee proprio per una carenza di informazioni concrete.
Ancora oggi gli interventi archeologici nel tessuto urbano della città risentono della difficoltà di trovare un accordo tra differenti esigenze, talvolta in forte contrasto tra loro. Per questo motivo, persino i risultati degli scavi eseguiti in funzione delle linee delle metropolitane stentano a trovare un assetto definitivo, come è avvenuto con le scholae annesse al Foro di Traiano in piazza Santa Maria di Loreto: una scoperta di enorme interesse scientifico, che non riesce ancora a trovare un idoneo accordo con il contesto urbano. Attuati nella maggioranza dei casi in base a motivazioni a carattere non scientifico, gli interventi di scavo portano spesso alla luce resti monumentali il cui inserimento nel tessuto urbano circostante non è privo di enormi difficoltà.
Per quanto riguarda l’area archeologica centrale, si è quindi proceduto con lo scopo di ottenere, attraverso le indagini archeologiche sul colle Oppio, intorno al Colosseo, nelle aree di bordo a via dei Fori Imperiali, nel Circo Massimo, il maggior numero di dati sulle sue vicende storiche e urbanistiche, prima di procedere alla proposizione di un nuovo parco archeologico. Ma che tipo di parco avevamo in mente?
La base proveniva dal piano particolareggiato di sistemazione della zona monumentale di Roma, sia con la delimitazione collegata alla legge del 14 luglio 1887, sia con il perimetro più ridotto, risultato dei lavori della commissione mista presieduta da Giuseppe Fiorelli. Il piano, fortemente voluto da Guido Baccelli con il supporto di Ruggiero Bonghi, era assolutamente innovativo per l’epoca; esso avrebbe condotto alla realizzazione di un enorme parco archeologico che, partendo dal Campidoglio – il quale ne era escluso –, comprendeva il Palatino, il Circo Massimo, le Terme di Caracalla ivi comprese le aree fino alle porte Appia, Latina e Metronia, il Colosseo e il colle Oppio. Nel piano del 1887, tuttavia, l’area dei Fori Imperiali era quasi interamente esterna al parco; come risultato dei lavori della commissione, anche la parte già inserita nel suo perimetro era stata estromessa, evidentemente perché i finanziamenti necessari per l’espropriazione dei terreni e la preoccupazione politica di reazioni a provvedimenti senza dubbio impopolari ebbero la meglio. Solo in età fascista, i Fori Imperiali vennero a fare parte integrante del sistema, assumendo anzi una valenza ideologica superiore a quanto era stato fino allora previsto.
Va sottolineato, a questo proposito, che, contrariamente a quanto per lo più si immagina, via dei Fori Imperiali è il risultato finale di un progetto urbanistico i cui prodromi risalgono ad età napoleonica, quando prevalse l’idea di realizzare uno spazioso viale alberato di collegamento tra il Campidoglio e il Colosseo, che, tuttavia, tagliava a mezzo il Foro Romano. Anche se fortunatamente mai attuato, il viale rettilineo era un elemento capitale di una specifica visione urbanistica tesa a offrire evidenza monumentale ai più imponenti edifici che Roma aveva ereditato dal passato, e a collegarli tra loro attraverso arterie di grande effetto scenografico. Lo spunto napoleonico, poi sviluppato nella stessa Parigi con la costruzione dei boulevard di Haussmann, non mancò di avere presa in molte città europee, a partire da Roma capitale d’Italia, nella quale già i primi piani urbanistici mostrano la tendenza alla realizzazione di larghi assi viari rettilinei di collegamento, a partire da via Cavour che, nell’intendimento dell’epoca, partendo dalla stazione Termini avrebbe dovuto scavalcare il Foro Romano con un ponte di ferro, e collegarsi, attraverso un tracciato viario trasversale, al Colosseo da un lato, e a piazza Venezia dall’altro. È la prima proposta che anticipa l’effettiva progettazione di via dei Fori Imperiali: una proposta, per inciso, che si ritroverà, con poche varianti degne di nota, in tutti i piani urbanistici di Roma fino ad età fascista. Certo non era esattamente il tracciato poi realizzato, perché non prevedeva il taglio della Velia, ma conferma che il collegamento tra piazza Venezia e il Colosseo con un’arteria di grande impatto visivo lì prende quota e si afferma, come inevitabile conseguenza dell’affaccio di via Cavour sull’area del Foro Romano.
Via dei Fori Imperiali non è un’invenzione squisitamente italiana, né tantomeno fascista, ma ha le sue radici nelle concezioni urbanistiche dell’Ottocento. È uno dei molti motivi per i quali non sono affatto convinto che la strada debba essere eliminata come asse visuale privilegiato di collegamento tra piazza Venezia e il Colosseo. La si può trasformare, ridurne la misura in larghezza, trasformarla in alcuni settori in viadotto, ma cancellare la memoria stessa della strada, che pure contava tra i suoi sostenitori architetti del calibro di Le Corbusier, mi sembra ormai impensabile. Tra l’altro, non ne vedo neppure un’effettiva motivazione, perché dal largo Corrado Ricci al Colosseo, la via dei Fori Imperiali è realizzata nel taglio della Velia, dove non ci sono più monumenti antichi da rimettere in luce, o da salvaguardare.
Perché, al contrario, non trovare una soluzione che preservi l’asse viario ricomponendo comunque ai suoi bordi l’area archeologica del Foro Romano e dei Fori Imperiali? Creare un vastissimo parco archeologico da piazza Venezia fino al colle Oppio e al Circo Massimo, senza collegamenti stradali interni, sarebbe controproducente sia nei confronti dei visitatori sia della manutenzione monumentale. Non so se sia stata mai posta la domanda di come i visitatori potrebbero fruire di questo immenso parco senza adeguati percorsi viarii, o ancora di come curare la manutenzione ordinaria e il restauro dei monumenti. È difficile che un parco di così vaste dimensioni possa essere pensato senza un essenziale tracciato viario al suo interno.
Una volta completati gli scavi, e dopo un’analisi scientifica dei resti monumentali superstiti, la soluzione più idonea sarebbe quella di procedere a una ricucitura del tessuto urbanistico, evitando la costituzione di un parco separato dal contesto urbano, ma progettando, al contrario, un collegamento diretto con le aree di bordo, costituite per lo più da palazzi per abitazione e da strade. È il motivo per cui, anche nell’ambito delle ultime commissioni sull’area archeologica centrale, la mia posizione è stata sempre a favore della costituzione di un parco aperto, percorribile al suo interno. Ottima cosa è ridurre il traffico automobilistico, tra l’altro dannoso per la conservazione dei monumenti oltre che per la salute pubblica, ma non per questo si dovrebbe fare a meno di collegamenti interni al parco, ad esempio mediante navette elettriche, per i più piccoli, per gli anziani e per chi ha problemi motori, insomma per rendere lo spazio vivibile, evitando altresì un eccessivo congestionamento delle arterie stradali di bordo.
Ho sempre avuto l’impressione che, nel caso dell’area archeologica centrale di Roma, la soluzione della realizzazione di un parco interamente recintato non sia la più corretta dal punto di vista urbanistico. Eppure, la maggioranza degli assessori all’urbanistica succedutisi a Roma hanno, qual più qual meno, appoggiato l’idea di una cancellazione di via dei Fori Imperiali: una soluzione che non sarebbe neanche facile a realizzarsi, per la consistente differenza di quota tra piazza Venezia e il Colosseo. Vuol dire che, demolita per ipotesi via dei Fori Imperiali e impostata un’area archeologica unitaria, ci si troverebbe di fronte a salti di quota nei differenti settori del parco: maggiore verso piazza Venezia, ridotto o nullo verso il Colosseo.
Solo sul colle Oppio la strada progettata da Antonio Muñoz negli anni ’30 per collegare via Merulana con via dei Fori Imperiali risulta effettivamente incongrua rispetto alle Terme di Traiano, i cui ruderi sono stati isolati e parcellizzati all’interno di giardinetti, e quindi non è in alcun modo possibile avere un’idea precisa dell’originario assetto dello straordinario monumento, il cui stato di conservazione è superiore a quanto ci si possa immaginare. Qui sarebbe stato molto facile riproporre una sistemazione complessiva del parco che tenesse conto della morfologia delle Terme riproponendone l’assetto. Così era stato proposto nell’ambito di una commissione che, come troppo spesso avviene a Roma, è rimasta lettera morta.


D2. Del possibile Progetto urbano
Nonostante il conflitto ancora irrisolto delle visioni e i numerosi fallimenti progettuali finora incontrati, non c’è dubbio che sia diventato ormai urgente dotarsi di un Progetto urbano credibile e alla scala giusta, per indirizzare in modo coerente i diversi interventi che a vario titolo investono l’Area Archeologica Centrale. Ma la forma tradizionale del Progetto urbano, come disegno compiuto di un assetto fisico-funzionale a medio-lungo termine, appare ormai del tutto inadeguata a guidare le trasformazioni future. C’è piuttosto da immaginare una convincente visione per l’avvenire dell’Area; e poi l’avvio di un processo di progettazione aperto, finalizzato al conseguimento della visione prefigurata: in pratica una combinazione flessibile ed evolutiva di interventi multiscalari, traguardati in funzione della visione assunta. La visione dovrebbe essere condivisa quanto più possibile dalla città, dalle istituzioni e dall’opinione pubblica internazionale, e alimentata operativamente dalle ingenti risorse attivabili in presenza di un progetto ben costruito e affidabile. Quali dovranno essere i temi più rilevanti del nuovo Progetto urbano per l’Area archeologica centrale di Roma, quale la sua forma e soprattutto quali le modalità d’attuazione possibili, nella nostra epoca sempre più dominata dall’incertezza e dall’imprevedibilità per il futuro?

È elemento basilare in una democrazia l’intervento dei cittadini in merito a progetti che coinvolgono la città, sempre che si possa giungere a qualche soluzione. Perché il rischio è che il frazionamento degli interventi e delle richieste conduca a un nulla di fatto, a una incapacità di superare critiche e obiezioni a favore di una condivisione di intenti. Troppo facilmente si corre il rischio ‒ politico, prima ancora che culturale ‒ di non poter procedere, per questo motivo, alla realizzazione di un progetto.
Nel caso dell’area archeologica centrale, si era posta, in effetti, la questione sulla preservazione dei giardinetti ai lati di via dei Fori Imperiali. Non sono mancate, evidentemente, obiezioni da parte di associazioni private che si sentivano depauperate di un settore di verde pubblico nel centro storico.
Un altro significativo problema, che coinvolge l’intera città, e non solo una sua porzione, è la massiccia presenza di turisti che in qualche modo hanno minato un equilibrio già di per sé precario tra le esigenze degli abitanti del centro storico e l’impatto di un nuovo sistema economico e commerciale che ne sta snaturando l’originario assetto. Inevitabilmente la massa di turisti che affolla una strada come via dei Coronari, un tempo tranquilla e fiancheggiata da negozi di antiquariato, ha provocato una rivoluzione: i negozi degli antiquari hanno lasciato spazio a bar, tavole calde, gelaterie e vendita di souvenir, senza alcuna soluzione di continuità, sì che la strada ha perduto molto del suo fascino. È ovvio che gli abitanti di zona siano contrari a un afflusso non controllato di turisti, sebbene la loro presenza produca non pochi vantaggi all’economia della città.
Ma è altrettanto vero che l’aumento del numero dei visitatori nei principali monumenti cittadini non potrà crescere a ritmo esponenziale senza idonee soluzioni, pena il degrado dei monumenti stessi. Quanti visitatori potrà accettare il Colosseo o il Pantheon senza che non solo i monumenti, ma la loro stessa immagine ne risulti gravemente degradata?
Vanno tenute nel dovuto conto, infine, anche le differenze di vedute tra archeologi, storici dell’arte e architetti, di coloro, cioè, che si occupano della conservazione e della tutela dei beni culturali. Talvolta – fortunatamente non sempre – il diverso approccio alla materia può condurre, anche in questo caso, a una paralisi. È luogo comune che gli archeologi si occupino della conduzione scientifica degli scavi e che gli architetti si occupino della sistemazione delle aree scavate in base a più mirati assetti urbanistici. Nella realtà dei fatti, è praticamente impossibile procedere correttamente se non attraverso un fortissimo rapporto di cooperazione che, solo, può permettere risultati concreti. Molto spesso, questa comunanza di intenti viene a mancare per gravi divergenze di vedute che lasciano il segno. Non è un mistero che le difficoltà per l’assetto definitivo dell’area dei Fori Imperiali nasca da questi contrasti, venuti alla luce in modo anche aspro in numerose occasioni: ad esempio durante le riunioni dei Comitati di Settore Congiunti nei quali si era discusso proprio sull’assetto futuro dell’area dei Fori Imperiali.
Si sente sempre più l’esigenza di un progetto urbano unitario per l’area archeologica centrale, capace di superare le divergenze di opinione, e che possa evitare quel che sta realmente avvenendo sotto gli occhi di tutti: l’abbandono al loro destino, proprio per la carenza di una visione unitaria, di alcune zone della città nelle quali sono stati effettuati, per varie cause, scavi archeologici di enorme importanza scientifica.


D3. Un programma a breve
Intanto che si discute la visione programmatica sono in corso interventi eterogenei ed emergenziali che rischiano di modificare in modo rilevante lo stato dell’area, prima ancora di avere a disposizione una prospettiva convincente per il progetto d’insieme, mirato a migliorare l’assetto complessivo evitando gli effetti controproducenti di interventi estemporanei o troppo settoriali. In particolare alcune questioni aperte che attendono risposte tempestive riguardano: a. l’inserimento della nuova stazione della linea C della metropolitana; b. la sistemazione dello scavo degli Auditoria di Adriano a piazza Venezia; c. la disciplina del traffico dei bus turistici; d. la regolazione dell’uso di via dei Fori imperiali; e. come far fronte al persistente degrado indotto da presenze abusive che involgariscono tutta l’area. In attesa della definizione del Progetto urbano complessivo, quali sono a suo avviso le azioni più urgenti da intraprendere? E chi dovrebbe farsene carico?

È necessario rendersi conto che il paesaggio urbano non resta mai uguale a sé stesso, ma cambia secondo il grado di conservazione, l’utilizzo e le funzioni delle strutture che lo compongono. Per questo motivo, continuare a dire, per esempio, che l’immagine del Colosseo è rimasta inalterata nel tempo, come era all’inizio del secolo scorso, o peggio, come era nel Settecento, non è affatto vero. Se anche il monumento sembra essere lo stesso, è mutato il paesaggio urbano circostante, e non solo a livello urbanistico. Il numero dei veicoli, di turisti con i loro punti di raccolta e con i botteghini per le vendite dei biglietti, la presenza di cartelloni pubblicitari, di baracchini per la vendita di bibite e di souvenir, i centurioni, che ormai non mancano anche a piazza Venezia, tutto questo non può non avere una ricaduta nell’immagine complessiva, ben lontana, ormai, da come vedeva Goethe il Colosseo al chiaro di luna in una città addormentata. Vediamo oggi i principali monumenti romani avviliti da un eccesso di superfetazioni, alle quali si affianca, talvolta, anche il loro utilizzo incongruo come spazio pubblicitario. Non c’è dubbio che alcuni luoghi nevralgici del centro storico, come piazza Venezia, non sia mai visibile nella sua compiutezza perché c’è sempre un palazzo sul quale dominano insegne pubblicitarie. Recenti proposte per la realizzazione di biglietterie presso il Colosseo risultano invasive rispetto all’ambiente circostante, e come sempre ci si domanda se non ci siano soluzioni alternative, tali da impedire un ulteriore svilimento di un paesaggio la cui immagine diventa sempre più precaria.
L’uso, o meglio, l’abuso dello spazio pubblico genera una trasformazione in negativo dell’aspetto complessivo del centro storico. Le orribili transenne con le strisce zebrate rosse e bianche nate negli anni ’70 per delimitare le aree dove si svolgevano interventi di manutenzione stradale, sono ormai adottate un po’ ovunque per allontanare visitatori e turisti da aree nevralgiche – ad esempio dinanzi a palazzo Farnese, dove non è più possibile, come un tempo, sedersi sui banconi ai lati dell’ingresso ‒ oppure per bloccare il passaggio di automobili, come davanti alla colonna Traiana e all’ingresso di via dei Fori Imperiali. Tutto questo risulta come un pesante inquinamento del paesaggio urbano. È come se fosse venuta a mancare quella necessaria regia complessiva che, pur tenendo conto degli inevitabili mutamenti della società, riesca perlomeno a contenere entro limiti accettabili il livello di degrado dell’ambiente. La città è come in uno stato di perenne precarietà, in attesa di una decisione che non arriva mai.
Nulla è più definitivo del provvisorio in Italia. Se guardiamo la città dall’alto, a volo d’uccello, non si può fare a meno di osservarne il mutamento perenne, non controllato. Non si tratta solo di sopraelevazioni, che non mancano, ma della moltiplicazione degli impianti tecnici che, nella loro prepotenza d’impatto, stanno modificando lo skyline della città. Dove un tempo erano solo antenne, ora si sono aggiunte le parabole, gli impianti di riscaldamento e di aria condizionata, insomma tutti quegli strumenti che rendono le nostre case più vivibili, certamente, ma che per forza di cose stanno alterando l’immagine complessiva della città, senza che vi sia la benché minima spinta verso soluzioni idonee, ad esempio l’adozione di specifiche schermature accuratamente progettate che riducano l’impatto visivo. Il sistema sembra replicare quanto avviene in America, dove si ha l’impressione che gli impianti si sovrappongano verso l’alto senza alcuna coerenza: ma il grado di fragilità ambientale delle città italiane è di gran lunga superiore!