Quattro domande a partire dal progetto per le vele di Scampia

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Domenico Potenza,
conversazione con Aldo Aymonino a partire dalle vele di Scampia PDF




Potenza_ A proposito del tema sulla demolizione e ricostruzione per il recupero delle vele di Scampia e più in generale  sulla rigenerazione di insediamenti residenziali pubblici in condizioni critiche, ricordo che qualche anno fa,  ti misurasti con una esperienza simile a Bari per Punta Perotti, quantomeno per quanto riguardava la riconversione delle aree, che era il vero tema sul quale bisognava dare soluzioni. Se non sbaglio decidesti di non demolire, ovvero di farlo solo parzialmente.

Aymonino_ provo a mettere insieme nella risposta un discorso che è piuttosto trasversale rispetto alle questioni che mi poni e che mi sembrano essere concatenate l'una all'altra (“Punta Perotti” e quindi Scampia).
Partiamo proprio dall'esperienza di “Punta Perotti”; era un intervento che, come le Vele di Scampia, perfettamente regolare, un progetto che aveva superato tutti i gradi di giudizio ed aveva percorso il suo iter politico-amministrativo-burocratico perfettamente in regola, tanto in regola che non si è fatto e non si può ancora fare nulla sul terreno dove insistevano gli edifici, perchè risulta - se non sbaglio - che il Comune debba risarcire 80 milioni di  euro ai costruttori Matarrese. C'è, in queste occasioni, un tipo di furore velleitario che crea non pochi danni: da un lato (il progettista o il costruttore) c'è chi vede il suo progetto bello o brutto che sia, costruito; dall’altro (la comunità civile) chi si sente minacciato dalla sottrazione di un diritto acquisito, nell’utilizzo dello spazio urbano secondo canoni e criteri che, seppur assolutamente condivisibili, sono tuttavia regolati da norme e leggi. Ricordo in proposito che in un primo schema progettuale c'era anche la presenza di Renzo Piano come consulente alla progettazione, che poi ha fatto in modo che il suo nome fosse cancellato e quindi dimenticato. Tutti buttano giù e poi cosa succede? Si crea un circolo vizioso in cui alla  fine non succede nulla, e tutti hanno ragione, o meglio hanno tutti torto, la cosa pubblica, gli interessi economici, le associazioni, i privati cittadini, etc... “Punta Perotti” è il classico caso in cui le cose al posto di andare meglio sono andate peggio. Adesso lì non c'è nulla, solo un campo di sterpi, in  quanto è una proprietà privata e non ci si è resi conto che l'edificio era perfettamente regolare e lecito e quindi buttandolo giù si andava contro la legge.

Potenza_Quella della demolizione, tuttavia, può essere considerata una soluzione accettabile e generalizzabile? Più in generale, come scegliere tra strategie drastiche a favore del recupero della legalità e strategie più articolate e contestuali, che rimettano in gioco altri valori (come nel caso di Scampia) ma con esiti inevitabilmente più incerti sul piano della sicurezza sociale?

Aymonino_Si questo si lega al modello che partendo da Punta Perotti può facilmente includere  “Scampia”, o il “Corviale”, o lo “Zen”, cioè che era sbagliato il modello architettonico e urbanistico: erano edifici enormi, messi malissimo rispetto al contesto, un pugno nell'occhio insomma. Con la nostra proposta di “Punta Perotti” volevamo lavorare sull'esistente, non come vorrebbero fare molti cioè facendo tabula rasa e riproponendo una condizione ante-quam che non esisteva prima, non c'è durante e non ci sarà dopo il progetto. Per questo avevamo preso gli edifici da demolire e li avevamo modificati, si può dire che li avevamo tagliati a fette, cioè da un edificio in linea avevamo ottenuto una serie di edifici a torre, delle piccole torri, che formavano uno skyline articolato e che potevano essere considerati come la porta di accesso a sud dell'area  metropolitana barese. Oltretutto questi lacerti di edifici preesistenti, essendo appunto tagliati, lasciavano penetrare il paesaggio e la continuità della linea costiera, anche quando li traguardavi dalla città vecchia.
Questa, più o meno, era l'operazione, un’operazione sulla quale stavano operando - più o meno a livello di rifelssione specifica, scientifica ed intellettuale - tutta una serie di progettisti; da Franco Purini a Rem Koolhaas che in quel periodo progettavano complessi residenziali che avevano quelle stesse caratteristiche: sembravano parti tagliate di un unico grande edificio, quasi delle opere di Matta-Clark. A me sembrava che avendo già il materiale a disposizione, quella poteva essere una soluzione. Koolhaas lo aveva sperimentato parzialmente nel “Bijlmermeer”  immaginando un progetto per nuovi servizi nel quartiere vicino l'aeroporto di Amsterdam construito a grandi esagoni, intorno alla fine degli anni 60. Quindi a me sembra che il problema delle “Vele”, del “Corviale”, di “Bijlmermeer”, come anche il fin troppo noto esempio del quartiere “Pruitt-Igoe” a Sain Louis progettato da Yamasaki (lo stesso progettista delle “Torri Gemelle”, strano destino il suo…) - che era un insediamento di edilizia sociale e che in poco meno di diciassette anni è stato abbattuto dal Governo Federale – sia quello del modello ideologico obsoleto, sia sotto l’aspetto architettonico che sociale.         

Potenza_Scampia è ormai diventato - in negativo e in positivo - un importante simbolo della città. Tenendo conto del suo potente ruolo nell’immaginario collettivo del nostro Paese, sarebbe stato possibile considerare altre soluzioni meno traumatiche e più conservative almeno della capacità simbolica di questo insediamento?

Aymonino_Io penso che molta dell'edilizia costruita dal Dopoguerra ad oggi nel mondo si possa tranquillamente abbattere, se però a monte, prima di abbattere c’è un progetto che preveda una soluzione compiuta e soprattutto un investimento costruito sui servizi; perchè è inutile ad esempio pensare a un edificio come “Corviale” se poi non vengono realizzate le infrastrutture e i servizi necessari, perchè significa creare un mostro a cui mancano delle parti che non sono proprio secondarissime per una equilibrata vita sociale. Se sono solo depositi in cui non c'è ombra di un negozio è chiaro che poi la criminalità cresce, se invece ci sono dei quartieri in cui bene o male c'è una polifonicità di funzioni e di servizi, in genere i comportamenti violenti tendono ad essere abbastanza sotto controllo.
Ecco io sono straconvinto che se non si lega alla residenza tutta una serie di servizi molto articolati non se ne viene fuori, la residenza da sola non ce la farà mai, a meno che non sia un condomino, ma la sola idea che sia quella la soluzione, mi fa orrore.
Io a Roma abito in un intensivo, un palazzone lungo 100 metri dove ci sono appartamenti tagliati molto bene, progettati da un architetto e un ingegnere che sapevano fare il loro mestiere, Julio Lafuente e Gaetano Rebecchini;  le finiture sono decenti e soprattutto quando esci trovi la metropolitana, i negozi, due supemercati etc.... Se quell'edifico lo prendi e come la Madonna di Loreto lo porti in una periferia in cui non ci sono trasporti pubblici, non ci sono servizi e commercio, quello diventa un luogo di terrore e di comportamenti di arrabbiato antagonismo.
Intanto una cosa da fare con urgenza  è aggiornare i modelli del Moderno. Questi modelli sono ormai diventati obsoleti, hanno quasi cento anni. Oltretutto in un’epoca storica come la nostra dove incalza la densità urbana come tema - basta vedere cosa hanno fatto in Olanda sulle aree di espansione sull'acqua - gli edifici sono di un certo calibro, non sono certo villette a schiera, sono grandi complessi con  una forte carica iconica che poi, se ci pensiamo bene, era anche l'obiettivo delle “Vele”, di “Corviale”, dello “Zen”, di “Punta Perotti”. Solo che li c'è stato un doppio errore, il primo di non realizzare prima i servizi e poi le abitazioni (dovrebbe essere il percorso virtuoso, perchè una volta che le abitazioni sono state vendute i servizi vengono presto messi nel dimenticatoio), il secondo di ricorrere a modelli ormai obsoleti. Detto questo le “Vele” di Scampia erano animate anche da ottime intenzioni sociali, certo è che se le lasci in mano alla camorra è chiaro che il risultato non può che essere questo. Inoltre vorrei segnalare che anche gli ecomostri delle Vele di Scampia erano costruiti benissimo, se non ricordo male le strutture le aveva studiate Morandi, tanto che quando hanno voluto buttare giù la prima, hanno dovuto usare per tre volte consecutivamente le cariche esplosive previste.
Io penso davvero ci siano parecchi esempi di ediliza che andrebbero abbattuti e ricostruiti meglio. Credo sia una pratica su cui si possa lavorare, certo è che però c'è bisogno di un compensatore sociale, di un ammortizzatore, non puoi dire “via tutti che adesso ci facciamo una parco” perchè trovi una opposizione inaggirabile, devi programmare soluzioni articolate, devi dare tempi certi in cui si possa effettivamente tornare nei luoghi che erano originariamente occupati, e poi bisogna davvero anticipare la realizzazione dei servizi, delle attrezzature e degli spazi pubblici, prima delle case perchè solo così può funzionare.

Potenza_É qui che entra in gioco la responsabilità e la potenzialità dell’architettura, spesso gli architetti e gli urbanisti salgono sul banco degli imputati per le responsabilità sociali del loro operato. Ma in una prospettiva meno deterministica di valutazione dei progetti e dei loro effetti, quanto può contribuire davvero l’architettura all’obiettivo della sicurezza sociale e della vivibilità in contesti particolarmente difficili?

Aymonino_Su questo tema ho molti dubbi. Io non credo a questo ruolo taumaturgico che viene affidato all'architettura. Faccio una serie di esempi e qualche riflessione. Si diceva che abitare al “Corviale” implementasse lo spaccio e il consumo di eroina. Da romano di una certa età posso dirti che le grandi panche marmoree cinquecentesche progettate da Antonio da Sangallo alla base di “Palazzo Farnese” hanno visto passare molta più eroina del “Corviale”, ma unicamente perchè era “un luogo” di spaccio, non importa se in centro o periferia, ma soggiace alla legge del mercato della domanda e dell'offerta. Il ruolo sociale dell'architettura, non è più in mano all'architettura perchè si è talmente allargata la piramide decisionale da trasformarsi in un ingranaggio complesso in cui deve esserci la politica, l'economia, la costruzione e un disegno d'insieme che governi il tutto. Se questo ingranaggio funziona, si hanno esiti a volte decenti, se non funziona gli esiti saranno negativi anche se si tratta del più grande progettista al mondo.
Diciamo anche che quando si tentano operazioni sociali guidate dal progettista - penso ad Aravena e al suo “Progetto Elemental”, nel quale il programma fornisce un kit più o meno preciso e poi lascia la fine della costruzione alla intraprendenza sia fisica che economica di chi quegli spazi va ad occupare - può funzionare se si lavora ad una scala molto ridotta. In realtà il ruolo sociale dell'architettura a mio parere può essere svolto soltanto dagli spazi attrezzati, gli spazi pubblici, gli spazi che poi vengono governati dalla politica.  Un buon esempio in questo senso è quello del recupero delle zone degradate sui bordi degli insediamenti spontanei di Medellin in Colombia, dove il Municipio ha previsto - sotto le basi dei piloni e delle stazioni di arrivo delle funivie, che collegano il territorio orograficamente complesso della città - attrezzature e spazi pubblici, collegati con servizi ed attività commerciali nei quali si può mangiare, bere, stare insieme, chiacchierare. Tutto questo ha comportato una diminuzione secca della criminalità di oltre il 30%.

Potenza_Certo, quella di Medellin è stata una scelta coraggiosa, inusuale ma, allo stesso tempo dirompente ed efficace per la restituzione di dignità ed identità alla qualità dello spazio pubblico. Una sorta di “rivoluzione” – come dice Sergio Fajardo (sindaco di Medellin 2004-2007) “quando il bambino più povero di Medellin arriva nella migliore aula della città, stiamo inviando un forte messaggio di inclusione sociale”

Aymonino_Si infatti la “Biblioteca de Espana”, un edificio che ha la forma di una serie di grandi sassi neri megalitici, è all'apice di una stazione di arrivo della funivie. Oltre ai lavori di Giancarlo Mazzanti c'è un lavoro fatto molto bene lungo il percorso della funivia, che è diventato uno spazio molto utilizzato, una sequenza di spazi pubblici che risale la montagna. Quello mi sembra un buon esempio. Altro esempio che mi viene in mente sul possibile ruolo sociale dell’architettura  è il “Sesc Pompeia” a Sao Paulo. Fancamente i migliori esempi di architettura sociale che io abbia mai visto sono proprio a Sao Paulo, il “Sesc Pompeia”, la FAUSP, la pensilina del parco di Ibirapuera e il Centro Culturale, sono luoghi centrali aperti a tutti, dove vai per fare delle cose anche se non sai perfettamente cosa. Sono luoghi di incontro, di scambio, di sorprese, esattamente il ruolo che ha sempre avuto la piazza nella città medievale.

Potenza_Quindi dici che il problema non è se l'architettura ha o meno un ruolo nella riqualificazione di questi spazi, è invece a partire dall'organizzazione e dalla distribuzione di alcuni tipi di spazi  in queste aree che si generano nuovi accadimenti, quasi prescindendo dalla qualità dell'architettura.

Aymonino_Esatto gli edifici poi possono essere più belli o meno belli, però intanto bisogna costruire degli edifici veri e non delle scatole speculative perchè anche quello fa la differenza, se ti piove in casa dopo un anno è diverso che se tu invece hai degli edifci perfetti che ti durano per 35 anni...

Potenza_Certo questo è stato uno dei principali problemi di Scampia dove già durante la realizzazione dei primi corpi di fabbrica, gli edifici mostravano seri problemi legati a questioni termiche ed igrometriche e questo ha portato al degrado degli edifici ancor prima di essere consegnati.
C'è ancora un’ultima questione su cui vorrei una tua riflessione, tra politiche e pratiche di rigenerazione. La rigenerazione sostenibile dei complessi abitativi in cui è sfuggito in modo apparentemente irrimediabile il controllo della legalità può essere demandata alla convergenza locale di una pluralità di politiche (sociali, di sicurezza personale, edilizie, ambientali, mobilità, opere pubbliche e servizi collettivi), con l’invenzione di nuovi modelli di gestione partecipata in grado di favorire la mobilitazione individuale e la gestione positiva dei conflitti interindividuali? Oppure è una questione da affrontare soprattutto con politiche top down di regolazione sociale e di sicurezza urbana, laddove non è possibile confidare realisticamente sulle disponibilità individuali e sul capitale sociale e sul capitale umano locale troppo condizionato dalla criminalità.
In altri termini, il recupero di queste aree di elevata criticità può diventare tema di progetto urbano flessibile e aperto alla partecipazione, o è una questione da affrontare soprattutto con politiche di sviluppo locale e di sicurezza pubblica eterodirette?

Aymonino_Io non sono mai stato un grande teorico della partecipazione, ci sono pratiche bottom-up che da una parte possono servire a fare alcune cose e dall'altra no. Provo a fare un esempio pratico. Una pratica bottom-up è stata quella della “High Line” a New York dove l'infrastruttura sopraelevata dei treni che smerciavano i magazzini del porto di Mahnattan, invece che essere demolita come prevedeva il Piano, è stata salvata dal comitato di quartiere che ha fatto pressione sul sindaco Bloomberg affinchè diventasse un parco lineare, cosa che è stata fatta ed oggi è considerato un luogo di pratiche virtuose, pieno di gente, ed è il posto più cool di New York. Il rovescio della medaglia è che in quella zona li, che era una zona in trasformazione, che avrebbe avuto bisogno di tempi maggiormente sedimentati e non rapidissimi, grazie a quel progetto è completamente cambiata in cinque/dieci anni. Così oggi quel comitato di quartiere si può fregiare di aver salvato l'”High Line” e aiutato il quartiere a rigenerarsi, ma dall'altra ha innescato un processo velocissimo di gentrification tanto che i prezzi sono arrivati alle stelle e i tre quarti degli abitanti originali se ne sono dovuti andare, perchè è chiaro che se costruiscono Zaha Hadid, Norman Foster, Renzo Piano con il “Whitney”, Frank Gehry e Jean Nouvel, quello diventa un posto dove ormai un metro quadro costa ventimila dollari... e chi se lo può permettere? Certo non i giovani artisti e gli studenti che prima abitavano quel quartire.
Quindi secondo me il ruolo della politica è quello di decidere, di prendersi le responsabilità per poi indirizzare l'architetto. Ad esempio la costruzione di Brasilia è stata decisa dal presidente Juscelino Kubitschek e non da Lucio Costa e Oscar Niemeyer (che l’hanno disegnata), quindi la catena decisionale era cortissima e così Brasilia è stata costruita in soli quaranta mesi. La previsione deve essere politica, non può essere architettonica. Poi sulla previsione politica l'architetto mette la sua visione ma non può essere il contrario. Quindi, secondo me ci vuole una catena decisionale ben precisa in cui ognuno prende le sue responsabilità. Per esempio non ho mai pensato, neanche per un attimo, che il progetto del Villaggio Matteotti lo abbiano fatto coloro i quali ci abitano; De Carlo avrà sentito un pò i futuri utenti e il comitato degli inquilini, dopodichè ha deciso lui come fare quelle case. Se tutti volevano un terrazzo col verde, avrà fatto pure un progetto del terrazzo col verde, però lo ha deciso lui insieme alla politica e al costruttore. Ripeto se il Villaggio Matteotti non avesse i servizi e non  si trovasse nella condizione  in cui la socialità viene mantenuta in un livello abbastanza decente, diventa un inferno anche quello. Posso farti tutti gli esempi che vuoi, ma penso che una architettura da sola non basti. Io penso che il “Sesc Pompeia” sia uno degli esempi più alti di architettura sociale che io abbia mai visto nella mia vita, ma li c'è dietro il pensiero della Sesc, che ha immaginato una struttura organizzata di un certo tipo, poi la Bo Bardi è stata sublime nell'interpretare queste richieste, però la richiesta è a monte ed è verticistica anche quando si parla di socialità.
La politica è dare un mandato a qualcuno per rappresentare, non solo i tuoi interessi personali ma anche l'idea di una società migliore di quella in cui viviamo oggi. Per questo si dice che fare politica sia il più nobile dei mestieri al mondo.

Potenza_Concordo con questa conclusione Aldo che mi sembra anche la più appropriata.