Quattro domande a partire dal progetto per le vele di Scampia

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Maria Federica Palestino (Università degli Studi di Napoli Federico II),
quattro domande a partire dalle vele di Scampia
a cura di Marica Castigliano

 

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Q1. Sulla demolizione e ricostruzione
La soluzione radicale dell’abbattimento delle vele di Scampia, con il recupero di una vela residua da destinare a funzioni pubbliche, solleva questioni di portata più generale riguardo al recupero delle periferie pubbliche in condizioni critiche. Può essere considerata una soluzione accettabile e generalizzabile?

La scelta di riusare una vela su sette è un compromesso fra le due posizioni estreme della conservazione e dell’abbattimento integrale che, sin dagli anni ’80 del XXI secolo, hanno polarizzato il dibattito pubblico sul destino del quartiere. Proverò a dire perché, a mio parere, non si tratta né di una buona soluzione, né tantomeno di una soluzione generalizzabile.
Introduco questo giudizio attraverso un’impressione personale, che è la seguente: del dibattito cittadino intorno a Scampia mi ha sempre stupito la cecità con cui, sin dalle origini, l’intero insediamento 167 è stato ossessivamente e ostinatamente ricondotto e ridotto ai sette edifici delle vele, per quanto particolari essi possano essere.
Se privilegiamo il punto di vista della forma urbana, mettendo soltanto per un momento da parte le dinamiche sociali che hanno reso nota Scampia come il fragile ghetto a nord di Napoli, scopriamo che essa offre ben altro che lo skyline delle vele, peraltro ormai intaccato dall’abbattimento delle prime tre. È l’unico quartiere cittadino, per esempio, a sprigionare la forza – se vogliamo perfino la bellezza – di un’opera integralmente fedele ai canoni dell’urbanistica moderna.
In una città dal grande ventre storico qual è Napoli, Scampia si è distinta, fin dalla sua fondazione, per l’ampiezza e l’omogeneità del disegno degli spazi aperti, dei grandi lotti e degli assi stradali, offrendo, in totale contrasto con il centro urbano, un plano-volumetrico dalle geometrie chiare e riconoscibili, dove luce, aria e sole giocano fra i grandi spazi vuoti e le superfici verdi.
Il fatto che costituisca uno dei punti della città da cui è possibile contemplare ampi squarci del cielo di Napoli è tuttora un aspetto fortemente identitario per il quartiere, che l’ha reso immediatamente riconoscibile. Il gigantismo dei lotti e la dilatazione dei percorsi, insieme alla specializzazione funzionale dei servizi, ne ha fatto il paradigma partenopeo del quartiere residenziale pubblico. Non è stato così per Ponticelli, l’altra 167 di Napoli, che, con un disordinato campionario di tipologie residenziali, non gode di un planivolumetrico equilibrato, né di altrettanto controllo nel disegno del tessuto urbano e, diversamente da Scampia, non è toccata dalla linea metropolitana di collegamento con il resto della città.
Mi sembra pertanto importante, in questa sede, riaffermare il primato di Scampia, anche se la città non ha voluto e non ha saputo coglierlo, né tantomeno valorizzarlo.
Ci tengo però a ricordare anche l’altra faccia della medaglia, che è altrettanto importante per comprendere a pieno la vicenda del quartiere. La decisione di sostituire le vele con nuova edilizia abitativa risale a una delibera di Consiglio Comunale del 1994 entro la quale, in risposta a un decennio di lotte organizzate da parte del popolare “Comitato Vele”, esse venivano dichiarate inabitabili. Esito di questa decisione è il progetto di rigenerazione fisica realizzato dal comune di Napoli a partire dall’inizio degli anni 2000. Progetto che ha indebolito l’impianto originario dell’insediamento sovrapponendo a questo una manciata di gracili palazzine pluripiano contenenti gli alloggi sostitutivi delle vele che oggi sfigurano, misere, di fianco alle svettanti torri e ai solidi palazzi realizzati negli anni ’70 e ’80.
Entrando nel merito di un giudizio più articolato sul Piano di riqualificazione delle vele, aggiungerei che, oltre a siglare un discutibile ritorno al linguaggio dell’intonaco e della persiana napoletana modulata sull’interpiano di due metri e settanta, il suo effetto è stato ridurre l’ampiezza dei tracciati originari attraverso l’inserimento di cortine edificate dotate di negozi accessibili dai porticati al piano terra.
L’uso maldestro di elementi della città storica, concentrato soprattutto sull’asse che dalla stazione della metropolitana conduce al centro dell’insediamento moderno, è il risultato del tentativo operato dai progettisti comunali di dare risposta alle pressioni organizzate dagli abitanti per ottenere case più umane e strade più vivibili. Richiesta ovviamente legittima e sensata che, rivisitata però attraverso una cultura del progetto modesta e poco aggiornata, è stata tradotta nella seguente, riduttiva equazione: case più umane e strade più vivibili = ritorno al repertorio di soluzioni offerto dalla tradizione urbanistica pre-moderna.
Contrariamente a questa interpretazione, l’idea che mi sono fatta nel corso della lunga e reiterata frequentazione del quartiere, che dal 2000 ad oggi ho frequentato in tre diverse occasioni di ricerca, è che ai bisogni di socialità dei residenti si sarebbe potuto rispondere più proficuamente rivisitando la modernità – anziché negarla – per dare alla domanda di vivibilità nuove forme. Magari in chiave di benessere e di tempo libero: ovvero utilizzando le ampiezze stradali per ricavare piste ciclabili e percorsi per pratiche sportive di diversa natura; o anche in chiave ambientale, ornamentale ed educativa, ovvero sfruttando le fasce stradali di rispetto per sperimentare nuove forme di forestazione urbana e di parco lineare, oppure immaginando alternative sistemazioni mercatali e altro ancora.
D’altra parte non tutti sanno che Scampia, sin dalla nascita, ha offerto le sue ampie strade alle coloratissime sfilate di un carnevale popolare inventato da un artista di murales che ha indirizzato la sua vita e la sua arte all’educazione del quartiere. Questo carnevale, oggi alla trentaseiesima edizione, si è consolidato al punto da raggiungere con la sua fama anche la città borghese che, già da qualche anno, comincia ad affacciarvisi. Stiamo dunque parlando di una comunità che ha saputo valorizzare la forma urbana dell’insediamento tanto da farne la scena di un importante rituale collettivo. Indirizzare le politiche pubbliche verso una fiera e consapevole rivisitazione della modernità, evitando di spaccare l’insediamento con un triste “boulevard di periferia” non sarebbe stato dunque impossibile. C’erano, di fatto, tutte le premesse, anche culturali, per impegnarsi in questa direzione.
Al danno di non avere saputo cogliere le potenzialità dell’impianto novecentesco, si è aggiunta, di recente, la decisione dell’amministrazione del sindaco De Magistris di radere al suolo ulteriori tre delle restanti quattro vele, conservandone un esemplare isolato da ridestinare a nuovi usi.
Mi domando: una volta cancellato l’impianto originario, qual è il senso da affidare a questa testimonianza puntuale? Cosa significa conservare un oggetto disancorato dal contesto che lo ha originato, se non eternare un’icona fine a sé stessa? Se, come è stato retoricamente affermato, le vele sarebbero il simbolo di quei mali dell’urbanistica moderna che è necessario sradicare, perché mai lasciarne una isolata testimonianza oggettuale?
Su questo vuoto di senso si basa, a mio parere, l’idea di eliminare sei delle sette vele (per la precisione tre, visto che altre tre sono già state abbattute). Trovo che estrapolare una testimonianza decontestualizzata, facendone la citazione di qualcosa che non c’è più, non sia auspicabile: né nel caso specifico, né con riferimento ad altre periferie.
Ogni insediamento moderno ha le proprie specificità, mentre ciascuna comunità insediata si rende portavoce di rivendicazioni sociali e di bisogni particolari. La formula rigenerativa da applicare al moderno deve, conseguentemente, fare i conti con le differenti esigenze che, caso per caso, la trasformazione pone. Non esiste una ricetta buona per tutte le occasioni. L’approccio deve essere strettamente sartoriale, perché l’abito della rigenerazione è un vestito da cucire su misura.


Q2. Sul caso Scampia
Scampia è ormai diventato - in negativo e in positivo - un importante simbolo della città, come appare paradossalmente anche nel film “Ammore e malavita” dei fratelli Manetti. Tenendo conto del suo potente ruolo simbolico, si sarebbe potuto adottare altre soluzioni meno traumatiche e più conservative?

Non credo che il quartiere sia diventato un simbolo della città soltanto recentemente; credo, piuttosto, che lo sia stato sin dal momento in cui, non ancora portato a termine, venne occupato dai senzatetto storici e dai terremotati del 1980. All’epoca, però, si trattava ancora di una realtà distante e inaccessibile al resto della città che, di conseguenza, rimase a lungo fuori dall’immaginario collettivo.
La fiction, per riprendere la suggestione lanciata dalla domanda, ha puntato sul valore iconico delle vele già a partire dal film per il cinema “Le occasioni di Rosa” del regista Piscicelli, che risale al 1981. Gli anni recenti, nel passaggio dal romanzo “Gomorra” di Saviano, che è del 2006, fino all’omonima serie televisiva di cui si sta attualmente girando a Napoli la quarta edizione, hanno semplicemente veicolato la potenza mass-mediatica di questo simbolo, trasferendolo dalla scala locale e nazionale – dove pure Scampia gioca un ruolo di prima donna insieme allo Zen di Palermo e al Corviale di Roma – alla scala globale.
È chiaro che quando si mettono le mani sulla trasformazione di un luogo assurto a paradigma simbolico del degrado e a icona mediatica della complessità del vivere contemporaneo, bisogna fare i conti con la eco generata da un’operazione di siffatta portata. Radere al suolo le vele come soluzione del problema Scampia sembra essere un tentativo ­–  per chi, come l’amministrazione comunale di Napoli, se ne è fatta più volte promotrice dagli anni ’90 ad oggi ­– di usare la spettacolarizzazione per entrare nel fascio di luce di una facile popolarità. D’altra parte, è pure vero che il fatto di avere ottenuto in sede politica la dichiarazione di inabitabilità a cui accennavo, è un dato di cui è necessario tenere conto, dal momento che a questi abitanti è stata fatta pubblicamente una promessa che non può essere sveltamente elusa, se non rendendo pienamente conto del perché.
A complicare ulteriormente la faccenda va aggiunto che, con il passare degli anni, svuotate man mano degli abitanti, e depurate dalla sofferenza del vissuto quotidiano, le vele hanno cominciato a sprigionare la formidabile potenza iconica che è stata divulgata attraverso il cinema e la televisione. Il tutto ha avuto ricadute economiche che, sia pure alla lontana, e in maniera non del tutto chiara, hanno toccato il quartiere e, in qualche misura, coinvolto perfino gruppi di residenti. Dai tempi delle rivendicazioni del Comitato vele, o della dichiarazione di inabitabilità del 1994, il profilo degli abitanti del quartiere si è modificato; con il risultato che ha ormai poco senso continuare a trattarlo come la periferia-dormitorio di trenta anni fa. Di questo sarebbe più che mai importante prendere atto per ricalibrare lo sguardo e per aggiornare le politiche pubbliche.
Spero di avere dato qualche elemento utile a comprendere perché considero riduttivo, arrivati a questo punto, continuare ad appiattire il destino di Scampia sulla querelle vele si, vele no, anche se resto intellettualmente legata alle vicende urbanistiche che hanno accompagnato la fondazione del quartiere e, con esse, alla storia di edifici dalla cui monumentale istanza resto tuttora affascinata.
Cosa fare, dunque, dopo avere assicurato un alloggio sostitutivo a tutti i legittimi destinatari delle vele?
Suggerirei di concentrarsi sulla ricca dotazione di strade e spazi aperti, anziché accanirsi sulla demolizione delle quattro vele sopravvissute che, a patto di vegliare perché non vengano rioccupate, potrebbero restare in stand-by, in attesadi sviluppi ad oggi ancora poco prevedibili.
Investire sul recupero e sulla valorizzazione del tessuto moderno che innerva i lotti edificati potrebbe essere, infatti, un modo per rilanciare il quartiere entro una prospettiva di fruizione allargata: in diretta connessione con il grande parco urbano centrale, e con il potenziamento del nodo di interscambio metropolitano dal quale è possibile raggiungere il centro storico in 20 minuti di treno e, sul fronte opposto, collegarsi ai comuni dell’hinterland.

 

Q3. Potenzialità dell’architettura
Spesso gli architetti e gli urbanisti salgono sul banco degli imputati per le responsabilità sociali del loro operato. Ma in una prospettiva meno deterministica dei progetti e dei loro effetti, quanto può contribuire davvero l’architettura all’obiettivo della sicurezza sociale e della vivibilità in contesti particolarmente difficili?

Assumere un’ottica di rigenerazione urbana e di recupero del preesistente in un quartiere con la storia di Scampia invita, indubbiamente, a esplorare se e quanto le tipologie edilizie e la morfologia del sito si siano prestate ad innescare usi impropri, favorendo la concentrazione di economie informali/criminali.
In un passato non troppo lontano, soluzioni finalizzate a stemperare le criticità di un controllo territoriale di tipo criminale e malavitoso, puntando sulla chiusura dei sottopassaggi stradali e sull’inserimento di funzioni di presidio attivo in prossimità dei più importanti spazi pubblici in dotazione al quartiere, sono state proposte all’amministrazione comunale attraverso gli studi realizzati dal Dipartimento di Urbanistica della Facoltà di Architettura di Napoli1. E tuttavia, già in quegli studi era stato evidenziato come portare l’occhio dell’abitante sulla strada, in applicazione alle teorizzazioni di Jane Jacobs, non significasse semplicisticamente abbattere i grands ensembles in nome della presunta efficacia di una palazzata continua servita da negozi al piano terra. C’era bisogno, e ce ne è tuttora, di attivare politiche urbane ad hoc, e di inserire funzioni primarie che, se opportunamente guidate, permetterebbero l’innesco di nuovi usi, inediti stili di vita e alternative routine urbane. Anche questa strada è stata intrapresa, più di dieci anni or sono, ovvero ai tempi del sindaco Russo Iervolino, con un accordo di programma finalizzato a portare alcune sedi dell’Università Federico II a Scampia. Purtroppo la regia blanda e incerta dell’operazione non ha ancora dato le significative ricadute che ci si sarebbe aspettati2.
Resto convinta, in ogni caso, dell’efficacia di azioni mirate, da un lato, a scardinare il profilo ancora troppo omogeneo verso il basso degli abitanti, dall’altro a sgretolare lo stigma che inibisce il cittadino qualunque a riversarsi per le strade di Scampia con l’obiettivo di una mattinata di tempo libero all’aria aperta. Auspicherei, proprio in questa direzione, che grande impegno venisse speso nel rigenerare la ricca offerta di spazi aperti che il quartiere potrebbe regalare alla fruizione urbana.
Non l’architettura, peraltro in gran parte di buona o discreta qualità, ma il montaggio virtuoso di politiche integrate (attraverso le quali strappare occasioni di avviamento al lavoro per la popolazione residente) consentirebbe a Scampia di superare tanto la vecchia immagine stereotipata di ghetto periferico, quanto la più recente immagine di Gomorra, anch’essa in via di dissolvimento.

 

Q4. Politiche di rigenerazione urbana
La rigenerazione sostenibile dei complessi abitativi in cui è sfuggito in modo apparentemente irrimediabile il controllo della legalità può essere demandata alla convergenza locale di politiche sociali, di sicurezza personale, edilizie, ambientali, mobilità, opere pubbliche e servizi collettivi, con l’invenzione di nuovi modelli di gestione partecipata in grado di favorire la mobilitazione individuale e la gestione positiva dei conflitti interindividuali? Oppure è una questione da affrontare soprattutto con politiche sociali e di sicurezza promosse e gestite nel partenariato con il centro, non potendo confidare realisticamente sulle disponibilità individuali locali?
Insomma, può diventare tema di progetto urbano integrato o è una questione da affrontare soprattutto con politiche sociali e di sicurezza pubblica eterodirette?

Credo, l’ho anche in parte già detto, che il segreto per superare l’empasse della insicurezza urbana risieda nel costruire le premesse per fare uscire i luoghi marginali dalle condizioni asfittiche nelle quali vivono, favorendo al massimo la compresenza di fasce di utenza differenziate che, in affiancamento ai residenti, portino nuove istanze e nuova linfa nella progettazione delle politiche pubbliche. Questo meccanismo offre infatti la possibilità di guardare a un luogo con occhi diversi da quelli di coloro che lo vivono nella quotidianità.
Ciò significa, in altre parole, lavorare intensamente alla costruzione di piani ai quali siano concessi i tempi lunghi dell’inserimento di nuovi soggetti e, con essi, la metabolizzazione di forme di confronto strutturato fra residenti stanziali e city users temporaneie/ooccasionali, incrociando politiche di diversa natura e provenienza.
La chiave è favorire l’incontro e la partecipazione degli attori sociali intorno a temi e questioni da affrontare come sollecitazioni urbane in senso ampio, da estendere a fasce di utenza allargata disponibili e interessate a fare della dimensione locale il centro di sperimentazioni in comune fra residenti e non residenti. Fino a quando si continuerà a pensare a Scampia come a un problema che riguarda soltanto chi la abita sarà difficile sconfiggere la marginalità. Scampia è una questione che riguarda la città, e come tale deve essere trattata.
In rappresentanza dell’Università Federico II ho partecipato, negli ultimi anni, ad un partenariato entro il quale sono confluite numerose associazioni del quartiere, impegnate nel recupero di una parte del grande parco urbano localizzato al centro del nucleo residenziale, da restituire alla fruizione pubblica grazie al progetto “Valorizziamo Scampia”3. Se dovessi riassumere in una parola cosa non ha funzionato di questo progetto direi che è l’idea di un partenariato tutto interno al quartiere a non avere retto. Se oltre all’Università fossero entrate nel gruppo altre forze vive e propositive provenienti dal resto della città sarebbe stato più facile spezzare alcune dinamiche locali che, nei fatti, sono risultate lesive per la riuscita del progetto, sottraendo energia alle iniziative messe in campo.
Dove i processi di stigmatizzazione hanno impresso una forte impronta, come a Scampia, le comunità locali hanno bisogno di ossigenare il senso di impotenza e insicurezza in cui vivono e per il quale sono ingiustamente note. Con il tempo ho capito che questo discorso non vale soltanto per gli abitanti, ma anche – che è meno scontato, forse – per le amministrazioni locali. La mia impressione, infatti, è che tutte le amministrazioni comunali avvicendatesi al governo della città, dal sindaco Bassolino in avanti, siano state fagocitate dallo stigma, e abbiano, gioco-forza, finito per metabolizzare Scampia come un problema intrattabile. Lettura che, inevitabilmente, ha condizionato negativamente qualità e stile delle decisioni prese.
Praticare azioni che consentano di ossigenare tanto la comunità locale, quanto le élites preposte al governo urbano può essere, dunque, una strategia fondamentale per arginare i danni arrecati dallo stigma. La qualcosa non può che avvenire attraverso il coinvolgimento di forze esterne che, in quanto tali, siano capaci di spezzare lo scoraggiamento, la sfiducia, l’autolesionismo, a volte persino il vittimismo, con l’energia di una visione altra.
Su come e perché attivare progetti radicati localmente e capaci, al tempo stesso, di avvalersi di presenze esterne e di motivazioni altre, ci sarebbe molto da approfondire, anche considerando il fatto che i luoghi simbolici come Scampia posseggono, nel male come nel bene, una grande carta da giocare, che risiede nella forza trascinante dell’exemplum. Ma sul ruolo che l’immagine e i simboli possono giocare nelle politiche e nelle pratiche non mi sembra il caso di addentrarsi oltre.


Note

1 Si fa riferimento alla Convenzione di ricerca per l’accompagnamento al Piano di riqualificazione delle Vele stipulato nel 1999 fra il Comune di Napoli e il Dipartimento di Urbanistica della Facoltà di Architettura, di cui era stato responsabile il professore Vincenzo Andriello.

2 E’ datata 13 maggio 2018 la notizia riportata dalla stampa locale circa lo sblocco dei finanziamenti regionali stanziati per completare una sede della Facoltà di Medicina dell’Università Federico II.

3 “Valorizziamo Scampia” nasce a valle di un tavolo di concertazione inaugurato nel 2012. Esso ha coinvolto le associazioni del territorio in attuazione del progetto “(Wel)fare Comunità a Scampia”, inserito all’interno del “Patto per Scampia”. Sia pure scontando i difetti tipici delle formule sperimentali, è stato probabilmente il primo tentativo, supportato da una decisione presa in sede politica, di raccordare progettazione edilizia e politiche sociali. “(Wel)fare Comunità a Scampia” è, infatti, l’esito di un accordo tra il Comune di Napoli e la Fondazione con il sud che è nato con l’obiettivo prioritario di promuovere un piano di interventi integrati per migliorare la qualità della vita nel quartiere.