Posizioni sul progetto urbano / 3

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Progetto urbano e città discontinua
Carlo Manzo PDF




1. Per proporsi come strumento efficace, il progetto urbano dovrebbe adeguare le proprie modalità alle condizioni di discontinuità e alle molteplicità disciplinari che oggi accompagnano i processi insediativi, sia nei territori della dispersione che nelle aree urbane addensate. Se guardiamo i progetti interessati alla città a partire dagli anni Settanta, va notato un progressivo spostamento di attenzione dalla ricerca di continuità - quando il riferimento ai caratteri della città storica voleva supplire al disinteresse per l’"urbano" del post-funzionalismo - ad una progressiva disarticolazione dei sistemi compositivi, sempre più attenti al rapporto con l’intorno, con gli spazi liberi, con i paesaggi. Queste modificazioni sono leggibili anche nelle esperienze progettuali di chi scrive, se si confronta il carattere compatto e autonomo dei progetti degli anni ‘70 (lo Zen di Palermo, e le nuove Università di Cagliari e di Salerno), con le “aperture” dei piani per le ricostruzioni post-terremoto (Teora, Potenza) e dei progetti per i Campus universitari in aree periurbane (Chieti, Lucera). Negli ultimi anni la nostra ricerca progettuale sulle conurbazioni nelle periferie si è poi interessata ai sistemi insediativi multipolari e alla rigenerazione dei quartieri di residenza pubblica (a Caserta e a Roma)1. Al di là delle differenze di luoghi e temi, ciò che lega queste esperienze - siano esse progetti, concorsi, convenzioni o ricerche dottorali - è la volontà di ridare un ruolo propositivo alla componente architettonica del progetto urbano, sempre più marginale. Continuo a ritenere che l’ipotesi morfologica, per i suoi caratteri strutturanti, risponda ad un’esigenza di forma necessaria per tracciare, e poi valutare, strategie di intervento valide per la città attuale. Di fronte alla disarticolazione degli insediamenti, ai fenomeni di pluralità e varietà, e agli intrecci multidisciplinari che accompagnano lo sviluppo della città, l’interrogativo riguarda quali condizioni servono al progetto per proporsi come una struttura ordinatricedi identità riconoscibili, di qualità differenziate, di misure e distanze opportune tra le parti, per farne quindi uno strumento capace di configurare le linee portanti e i nodi significativi delle trasformazioni. Un tipo di elaborazione cioè che sia sufficientemente strutturata ma anche connessa e  “dialogante” con le componenti e i contesti, sia nelle aree della città diffusa che in quelle disponibili della città consolidata.

2. La vaghezza che ancora accompagna il termine città diffusa, nonostante i numerosi studi in cui la “sofisticatezza analitica delle descrizioni non è riuscita a tramutarsi in sapere critico e operativo”2, è connaturata all’assenza di forma e di caratterizzazione architettonica, alla estesa variabilità, alla “frammentazione" della dispersione insediativa.  La città diffusa, che appare come sommatoria di interventi più o meno casuali, risente delle scarse regole di edificazione e della richiesta di soluzioni alternative alle alte concentrazioni abitative dei megaquartieri realizzati negli anni ’60-’80. Non si può negare che questa condizione, sostanzialmente anti-urbana, presenti molti degli aspetti “patologici” dello sprawl a bassa densità: l’indistinta edificazione di territorio, l’esigenza di un notevole impegno di infrastrutture, la difficoltà a definire e “rappresentare” architettonicamente gli spazi pubblici e i luoghi di aggregazione e riconoscibilità collettiva. Parte della cultura architettonica, già negli anni Novanta ha disperatamente cercato aspetti positivi nella dispersione e nel caos, considerati come fenomeni ineluttabili - se non addirittura motivi ispiratori - dei nuovi paesaggi urbani. Chi ha ignorato la cronica dequalificazione degli insediamenti ha spesso coperto col velo della spontaneità le pratiche abusive (sistematicamente sanate da condoni), in nome di una presunta democrazia dell’autocostruzione. Tuttavia indirizzando diversamente il giudizio, si può riconoscere che l’attenzione al ruolo crescente degli spazi liberi e delle aree verdi, non più elementi di contorno o di semplice abbellimento (insieme ad una visione più ampia di paesaggio), ci consente di non liquidare del tutto la città diffusa, per riconsiderarne alcuni aspetti - l’inclusione del verde, e degli spazi vuoti - da assumere come base potenziale di nuove ipotesi insediative fondate su una concezione diversa della discontinuità. Ma va sottolineato che il passaggio da una “diffusione” indistinta ad una rinnovata idea di città come sistema discontinuo richiede progetti di riconfigurazione dell’insediamento, capaci di rispondere alle carenze di strutture di ampia funzionalità e di forme identitarie.
Se infatti conveniamo che tra i compiti di un progetto responsabile c’è quello di dare agli insediamenti, oltre a modelli funzionanti, anche riconoscibilità e senso di appartenenza rispetto all’abitare, non possiamo sottrarci dal reinterpretare i caratteri della dispersione a partire dalle nuove condizioni d’uso del territorio, dalle diverse esigenze aggregative e dai mutati rapporti tra residenze e luoghi del lavoro –orientate sempre più sui servizi che sulle manifattura-, per elaborare modelli alternativi che ne risolvano la cronica indeterminatezza e rispondano alla assenza di identità del territorio edificato.  A ben guardare, di fronte al passaggio dalla città compatta a quella moderna che si disarticola nella campagna, all'interno dei molteplici criteri di elaborazione del progetto urbano3 possono essere schematicamente enucleate due posizioni.
- Quella che accetta la dispersione senza qualità e il caos metropolitano come condizioni di un ordine diverso, fatalmente incontrollabile e privo di forma, in cui il progetto ha forti labilità se non addirittura margini di casualità. In questo caso i valori sono prevalentemente affidati agli aspetti tecnico-economici e gestionali: accettando indeterminatezza e fluidità come condizioni distintive dell’architettura contemporanea, è difficile valutare i differenziali qualitativi dei progetti, anche rispetto ai contesti.
- Quella sostenuta da chi è interessato a ridare un ruolo centrale al progetto di architettura, che cerca nella disarticolazione delle strutture urbane sul territorio la base di un sistema discontinuo in cui l’architettura della città possa ritrovare una diversa identità delle parti e nuovi rapporti con gli elementi naturali, dove i vuoti e gli spazi liberi possono essere considerati “come figura attiva del progetto” (C.Martì 2001) e quindi leggibili e utilizzabili anch’essi in termini di partecipazione ai sistemi  formali. In questa seconda ipotesi, che ci appare più convincente, le problematiche del progetto urbano tengono conto delle nuove condizioni dell’abitare disarticolate in paesaggi aperti e spesso compositi, senza però rinunciare a ricercare i principi di razionalità e chiarezza compositiva. Intendo dire che i criteri di costruzione del territorio che si propongono di rimuovere gli effetti della dispersione indistinta devono partire da ipotesi morfologiche caratterizzate. Per evitare i rischi di posizioni estetizzanti, è bene chiarire che ci si riferisce ad una idea di forma intesa non come generatrice di immagini ma come struttura ordinatrice di figure funzionanti e allo stesso tempo espressive di valori condivisibili. Se pensiamo che alla costruzione della città possano partecipare esperienze che legate alla tradizione dello stadt-bau in cui l’architettura conserva un ruolo-guida, allora va sottolineato che anche alla scala urbana gli elementi del progetto (edifici, quartieri, infrastrutture, luoghi pubblici, parchi) non sono estranei ai procedimenti compositivi dell’architettura e vanno concepiti e valutati “per forme”: che beninteso siano realistiche e funzionanti, riconoscibili, e provviste di senso rispetto ai contesti. Nel progetto urbano le ipotesi morfologiche caratterizzate non sono esaustive rispetto ai programmi, ma possono tracciare i capisaldi di un’ossatura resistente che assicuri un disegno funzionale e riconoscibile alla crescita urbana.

3. La presenza di aree verdi e di spazi liberi si riduce drasticamente - fin quasi a scomparire - nella città ottocentesca e in quella speculativa del capitalismo, per ricomparire nei piani della città moderna, con le alternative della città-giardino, dei quartieri razionalisti e della ville radieuse. E’ possibile rintracciare una continuità di interessi per la città aperta e discontinua anche in molti progetti di città della cultura architettonica italiana del Novecento, nei quali la scomposizione dei vecchi isolati e le aperture ai grandi vuoti non hanno comportato la rinuncia ad un’idea di forma, ma ne hanno cambiato i principi compositivi. Nei piani-progetti di Albini, dei BBPR, di Bottoni, nei contributi di Giuseppe Samonà sulla “città in estensione”, negli studi urbani di Rossi e Aymonino e di chi ha proseguito l’impegno nell’analisi della città4 si coglie come filo conduttore il riconoscere alle aree inedificate, all’inclusione del paesaggio agrario e degli elementi naturali, un valore fondativo per la costruzione della nuova città. A partire da questa condivisione è possibile ipotizzare che le zone di espansione urbana nella campagna vengano ricomposte in una città discontinua, da ridefinire globalmente come sistema attraverso dei progetti urbani in cui la discontinuità è la base non di assenza di forma, ma di una forma diversa.
Partendo da questi contributi teorici e progettuali, se oggi trasferiamo alla scala del territorio la teoria della “città per parti definite” delineata da Rossi, le aree parzialmente edificate intorno alle grandi città possono essere viste come la base di un sistema urbano discontinuo innervato nella campagna, nel quale i centri urbani minori sono paragonabili ai quartieri, le aree verdi e agricole sono i parchi o i giardini produttivi, mentre il ruolo degli edifici pubblici può essere svolto dai grandi manufatti storici, dai servizi integrati e dai poli infrastrutturali. Questo punto di vista “morfologico” ha notevoli conseguenze sull’idea del progetto urbano, anche dal punto di vista strategico e organizzativo perché punta al rafforzamento del sistema insediativo alla grande scala attraverso il recupero delle preesistenze, la valorizzazione delle differenze e la creazione di nuovi equilibri tra elementi naturali e artificiali. Nella ricerca quindi di un possibile disegno ordinatore del “territorio per parti”, l’ipotesi morfologica affida un ruolo importante alla trama delle infrastrutture e alla caratterizzazione architettonica e funzionale dei centri minori, nella prospettiva di ottimizzare le risorse da assegnare ad ogni nucleo localizzandovi un’attività specialistica, di interesse sovra-urbano. La strategia che cerca di specificare l’offerta funzionale di ciascun centro, valorizzandone i caratteri individuali, crea le condizioni per riqualificare (e se necessario densificare) i nuclei esistenti, e evita le diseconomie che derivano dalla replica delle stesse funzioni in centri vicini. E inoltre consente di strutturare in un quadro organico la frequente ma indistinta richiesta di mixitè funzionali, rispondendo all’esigenza di creare nuove centralità in aree marginali o periferiche del sistema metropolitano.
Questa linea di lavoro aveva già improntato alcune ricerche di progetto a larga scala, come quella di Agostino Renna sui centri dell’Abruzzo, quella di Bisogni per la periferia a nord di Napoli, o le diverse proposte per il Vallo di Diano 5. In sintesi l’ipotesi è che, per diventare una “città moderna”, il territorio parzialmente urbanizzato - mettendo a sistema la propria struttura discontinua - vada ripensato come un sistema policentrico definito dai nuclei distinti (esistenti o di progetto) e parti definite, e punteggiato da grandi polarità sovra-urbane. In continuità con questa ipotesi sono stati elaborati, come si vedrà più avanti, alcuni progetti per le aree di pianure della Campania.6

4.    L’idea della città contemporanea come sistema di nuclei distinti corrisponde alle tecniche di densificazione discontinua, rilanciate nel recente dibattito sulla città occidentale7. Anche il fenomeno delle shrinking cities - la decrescita di alcune città industriali, iniziato in America con il caso di Detroit -  per vie diverse, sembra giungere agli stessi esiti: se le parti dismesse diventano aree verdi, la trasformazione della città compatta va verso una maggiore distinzione delle parti. Questo processo di discretizzazione può essere applicato alle diverse scale dimensionali, come dimostrato da quanto avviene in molti quartieri residenziali. Infatti in molte città europee, in particolare in Olanda, Francia e Germania, si è adottata una politica di demolizioni finalizzate a ridefinire l’identità e a riqualificare le condizioni abitative dei grandi complessi abitazione pubblica. Si pensi al totale ridisegno, attraverso estese demolizioni, del quartiere Bijlmermeer ad Amsterdam, alla scomposizione in blocchi della unità lineare razionalista nello Leinefelde-Worbis in Germania, ai tagli nei grandi edifici curvilinei dei quartieri di Aillaud in Francia. Se trasferiamo questo processo alla scala più ampia, in molte aree periurbane la “discontinuità strutturata” può essere oggi un obiettivo ancora perseguibile, piuttosto che una condizione da ricercare in un futuro prossimo sperando in improbabili fenomeni di contrazione urbana. Nei territori non ancora completamente edificati -dove la città circondata dalla campagna si è trasformata in brani di campagna circondati dalla città- è possibile oggi prefigurare una struttura discontinua formata dall’alternanza tra aree urbane e rurali, a patto di arrestare il processo di edificazione indistinta. In questi casi per impedire la saldatura tra i centri urbani contigui è necessario compensare il diradamento delle zone libere con azioni di densificazione controllata dei nuclei edificati, ripercorrendo -con tecniche aggiornate- quei processi di stratificazione che sono sempre esistiti nella storia della città. Nella consapevolezza che, per essere realistici ed efficaci, questi processi di trasformazione urbana dovrebbero essere sostenuti da una politica fondiaria che faccia prevalere l’interesse comune 8.
Per quanto riguarda l’aspetto teorico-metodologico bisogna evidenziare che, senza una ipotesi morfologica espressiva di un’idea di città, le normative di intervento sono destinate a restare procedure astratte, descrittive e inefficaci. Per questo motivo si resta perplessi quando, nel teorizzare i procedimenti del progetto urbano, vengono proposte azioni o condizioni qualila permeabilità, l’attraversamento, la riammagliatura, il superamento del limite, la porosità, l’estetica del frammento, enunciate come slogan di sicura efficacia per il progetto urbano9. Queste indicazioni, che alludono ad architetture viste come dispositivi10 “generativi” di forme e funzioni sempre variabili, non possono essere considerate valide in generale, ma tutt’al più definiscono temi da vagliare di volta in volta rispetto alla coerenza con l'idea della trasformazione urbana.
Nell’ipotesi della città-verde policentrica, è il sistema insediativo discontinuo e diversificato che ha determinato la scelta delle tecniche progettuali più idonee: nelle ricerche sulle pianure della Campania, ad esempio, per creare un alternanza di nuclei urbanizzati e fasce verdi, i criteri di intervento si sono mossi in direzioni opposte ai dispositivi della ricucitura, del rammendo o della permeabilità, sopra evocati. Al contrario, richiamando la diffusione del tipo “a corte” e la tradizione dei grandi recinti dell’architettura rurale, in alcuni progetti sono state adottate delimitazioni dei lotti e muri abitabili, finalizzati a definire e proteggere i cluster residenziali. Oltre che sul tema del recinto, i progetti sull’area dei comuni atellani, nell’Ager Campanus, si sono basati sulla composizione di cunei verdi e di settori di case-laboratorio11 (figg. 1-2).

5. Una riflessione particolare va fatta sulla “flessibilità del sistema normativo”, un punto che mette in gioco sia aspetti sostanziali che metodologici del progetto urbano. Negli ultimi anni il dibattito ha visto crescere una distinzione tra due concezione del progetto, l’una come “processo” e l’altra come “prodotto” formalizzato, riproponendo distanze tra il punto di vista dell’architettura e quello dell’urbanistica che sembravano in gran parte superate. A ben guardare, il procedimento e l’oggetto formalizzato - pur condizionandosi reciprocamente - appartengono a due momenti diversi dell’azione progettuale. Il “processo” segue i tempi necessari allaformazione delle decisioni, alle scelte politiche e strategiche, alla messa a punto della domanda e delle contrattazioni tra le componenti sociali. Il prodotto “formalizzato” corrisponde al momento in cui l’architetto, acquisiti i dati della domanda e i contributi  disciplinari specialistici, configura la risposta più avanzata possibile rispetto ai fabbisogni. Da una parte i modi del processo influenzeranno le scelte e i temi urbani, dall’altra la finitezza della soluzione è l’atto ultimo, (necessario seppure mai definitivo) del processo stesso: consentirà di verificare le scelte iniziali, di valutare la sua adeguatezza, e se occorre, di comparare soluzioni differenti. Sono cioè due ambiti solo in parte sovrapponibili, ciascuno con una propria specifica strumentazione. Per stabilire relazioni virtuose, bisogna tener in conto gli obiettivi delle diverse fasi all’interno di un programma complesso: il procedimento che accompagna le scelte consente di verificarne la realizzabilità; la definizione formale conclusiva consente di verificare il funzionamento, le possibilità d’uso e il livello di gradimento delle istituzioni e degli abitanti. E’ bene lasciare a ruoli diversi dal nostro, al pianificatore, al city-manager, all’artista creatore di dispositivi, la convinzione che la flessibilità delle proposte siano garantite dall’indeterminatezza della soluzione; analogamente a quanto avviene nel progetto architettonico, infatti, nel progetto urbano è la razionalità del sistema formale che consente la massima possibilità d’uso, e perfino le politiche dell’effimero si esprimono al massimo grado nelle architetture compiute, possibilmente belle se pensiamo alle estati romane di Nicolini, che disegnano la scena fissa degli eventi urbani.
L’aspirazione all’efficienza e alla bellezza non può essere raggiunta o verificata senza una precisa e responsabile definizione formale. La finitezza della scelta morfologica (insieme alla sua qualità misurabile) è ancor più necessaria se si pensa che l’architettura è destinata a durare nel tempo, e ciò è particolarmente vero in Italia dove il ciclo medio di vita degli edifici è abbastanza lungo. Le posizioni che amano vedere il progetto come un “generatore di processi”, inseguendo la logica mutevole dei “dispositivi” e subendo le oscillazione della committenzae delle componenti tecnico-specialistiche,  portano fatalmente all’indifferenza per i caratteri e le qualità delle architetture, che sempre più spesso vengono considerate marginali e ininfluenti.
Se si ritiene ancora importante che la società civile e le sue componenti si assicurino le basi di una struttura insediativa adeguata, efficace e riconoscibile, il progetto urbano deve utilizzareentrambi gli ambiti del processo e del prodotto, operando per precisioni e differenze variabili sul territorio, sapendo che alcuni elementi possono persistere nel tempo ed altri si modificheranno o avranno sviluppi imprevisti. Com’è noto, una metodologia di intervento “dinamica” è maturata da tempo grazie al superamento della sequenzialità dei livelli di pianificazione, per cui la cultura del progetto urbano può operare con variazioni di scale e di temi a seconda degli obiettivi. Per essere realistica ed efficace, una strategia del progetto urbano adatto ai caratteri nella città discontinua può definire i diversi livelli di approfondimento dell’intervento a seconda degli obiettivi: richiede la precisione architettonica nei luoghi significativi, nei quali il controllo della qualità formale,  serve per tracciare i punti fissi della “struttura” del progetto; si limita invece al procedimento e agli aspetti normativi, con indicazioni meno formalizzate, nelle zone destinate a trasformazioni rapide12. Tra i primi ci sono i progetti dei poli emergenti, gli spazi pubblici e rappresentativi, i monumenti e le aree archeologiche, i paesaggi “sensibili”, gli innesti nei centri storici consolidati. Le seconde riguardano le aree intermedie e quelle di importanza marginale, le zone produttive e commerciali, gli spazi aperti per lo sport e il benessere, insomma quelle che in genere richiedono continue modificazioni.

6. Nella dualità qui tratteggiata il sistema degli spazi pubblici e delle strade ha sempre avuto una grande rilevanza nel disegno della città, e talvolta ha assunto una autonoma evidenza architettonica, sottolineando le linee portanti dell’ossatura urbana (dal sistema di porticati delle città ellenistiche, ai crescent di J. Nash a Bath e a Londra, alle “ordonnance” della città sette-ottocentocentesca ). Ma gli aspetti più interessanti per il progetto urbano sono rintracciabili nelle esperienze moderne che hanno risolto i rapporti tra centralità, gerarchie e molteplicità di condizioni d’uso utilizzando sapientemente le tensioni funzionali e compositive tra l'alta formalizzazione dei poli e dei luoghi collettivi, il disegno delle spine infrastrutturali, e le regole più o meno definite dei tessuti residenziali. Queste tensioni sono leggibili, in diversi progetti urbani: negli edifici alti che spiccano tra le case a patio della città orizzontale di Hilberseimer, nel contrasto tra il nucleo civile e gli appoderamenti delle case rurali nelle fondazioni urbane nelle bonifiche del Ventennio nel Lazio e in Puglia13, in alcuni progetti urbani della ricostruzione postbellica italiana. In tempi più recenti, criteri compostivi similari sono leggibili nel rapporto tra precisione dell’impianto e variazioni delle regole residenziali, ad esempio nel quartiere Malagueyra di A. Siza; o nei diversi pesi normativi nell’insediamento post-sisma di Monteruscello di A. Renna, dove al disegno rigoroso del centro acropolico si affiancano indicazioni tipologiche molto caratterizzate nei blocchi residenziali a corte, e meno definite nei tipi delle case a villa e negli isolati  produttivi in pianura.
La logica della condensazione e rarefazione di valori, anche architettonici, è stata sperimentata nella unità di ricerca PRIN 2009-10, che si è proposta di trasformare gli insediamenti della piana del Sarno in una città-verde discontinua. Come strategia di intervento abbiamo proposto un sistema di direttrici lineari e nodi significativi su cui si concentrare i valori -formali e di uso- emergenti, rispetto alle zone secondarie dal “disegno debole”14. La direttrice longitudinalelungoil fiume è risolta da un sistema di attrezzature a scala sovracomunale, a basso impatto volumetrico (compatibili con la natura del parco agro-fluviale) destinati a diventare i luoghi collettivi “primari” incubatori delle vocazioni espresse dai nuclei urbani preesistenti (archeologiche, agricole, turistiche ecc.). Ledirettrici trasversali, per migliorare le relazioni funzionali e visive tra i due versanti, sono formate da pendoli infrastrutturali ortogonali al fiume, i cui terminali sono costituiti da unità residenziali-produttive a sud e i poli attrezzati sul fiume a nord. Riassegnando un ruolo ai tracciati storici centuriali, ai canali e alle fasce di controllo delle possibili esondazioni, le polarità contrapposte collegate a queste reti infrastrutturali-paesaggistiche creano nuove attività connesse ai nuclei urbani e produttivi esistenti. Nei cluster residenziali (creati come piani di zona o parti da risanare nei comuni di Pompei e Scafati) le aggregazioni di case-serra produttive offrono un’alternativa ai tipi obsoleti della casa a blocco isolata, della casa a schiera o del condominio (figg. 3-8). Tra le nuove polarità lungo il fiume è stato elaborato, di concerto con l’amministrazione comunale, un progetto di recupero e ristrutturazione del grande recinto del polverificio borbonico, da destinare a strutture per la ricerca agroalimentare e ad attività culturali e della formazione (figg. 9-12)

Per concludere, posso15 solo qui accennare di passaggio che i problemi del rapporto tra la forma delle parti edificate e il disegno dei vuoti non riguardano solo il disegno di suolo nei territori ma le diverse scale dimensionali degli insediamenti: la strategia morfologicamente controllata della discontinuità, infatti, può coinvolgere anche la città compatta, in special modo se ipotizziamo che le aree dismesse vengano risolte come campi distanziatori e luoghi da conquistare ad attrezzature di uso collettivo. Analogamente, le logiche del progetto investono il sistema delle connessioni e delle funzioni nella struttura stessa dell’edificio, quand’esso viene concepito alla scala urbana. Dalle unità d’abitazione corbusieriane ai percorsi-ponte di attrezzature collettive inseriti in quota da Steven Hall nel complesso residenziale Linken Hybrid a Pechino, le scelte morfologiche, oltre a delineare la forma degli elementi strutturanti, possono intervenire in maniera significativa sulle gerarchie dello spazio e sulle nuove possibilità d’uso dell’abitare.


Note

1. Concorso Zen di Palermo, 1970, (Casabella n. 364,1972);  Concorso per la nuova università di Cagliari, 1972 (Controspazio n. 3, 1973, con L. Pisciotti, D. Rabitti e U. Siola), e per l'Università di Salerno (1974); i piani di ricostruzione post-terremoto di Teora, con G. Grassi, A. Renna, A. Fratianni, e. Guazzoni, V. Pezza (su Lotus n. 36, 1983)  e di Bucaletto a Potenza, 1994 (Università- Progetto-Territorio, Torino 1998); progetti per il Campus universitario di Chieti (1986-2000,  (Skirà 2014)  con G. Barbieri, A. Del Bo, R. Mennella. Le ricerche PRIN e SUN sulla pianura campana (2004-2012) sono richiamate più avanti. Cfr. anche i progetti di la rigenerazione dei quartieri Vanvitelli a Caserta, Tor Bella Monaca a Roma, e di via Napoli a Maddaloni (Ce).

2. A. De Rossi, “L’architettura della grande scala” in Grande scala. Architettura, politica, forma a cura di A. de Rossi, ed.List, Barcelona 2009, pg 14.      

3. Un quadro delle posizioni sul progetto urbano è in C. Gasparrini: “Prime visioni- attraverso le scale dei piani e dei progetti” ed. Clean,  Napoli 2002,  pagg. 28 e segg.

4. A. Rossi: Introduzione all’edizione portoghese de "L’architettura della città"in Scritti scelti, a cura di R. Bonicalzi, Clup 1975; cfr. i saggi di A. Rossi e C. Aymonino in AA.VV. La città di Padova, Officina Roma 1972;  G. Samonà, La città in estensione, Palermo 1975.

5. A. Renna, “Le illusioni e i cristalli”, Clear Roma, 1980; S. Bisogni, Il continuo collinare tra la città e l’entroterra, in S. Bisogni, G. Polesello, Periferie,  ed. Clean, Napoli 1994. Per riscattare i problemi irrisolti di cinque centri della periferia napoletana (Calvizzano, Giugliano, Marano, Mugnano, Villaricca), Bisogni alterna concentrazioni e rarefazioni, risolvendo le espansioni residenziali in grandi isolati con tipologie miste, sulle misure della trama centuriate. Per il Vallo di Diano vedi anche le diverse ipotesi insediative di P. Portoghesi, F. Rispoli, M. Borrelli.

6. ll territorio dell’Ager Campanus, inteso come una potenziale metropoli discontinua e multipolare, sta in C.A. Manzo: Recinti metropolitani-La costruzione della pianura campana, Kappa, Roma 2012.

7. cfr. gli scritti di J. Corner,  D. Kelbaugh, M. Sorkin, su densità e peri-
ferie, in Lotus n.117, 2003

8. Sulla saldatura dei nuclei urbani e sulla densificazione cfr. C.A. Manzo: Recinti metropolitani op. cit. Per la densificazione controllata degli spazi liberi nella rigenerazione di alcuni quartieri italiani di residenza pubblica, cfr. C.A. Manzo. “I criteri di riqualificazione del quartiere Ina casa L. Vanvitelli a Caserta” in AA.VV., Il secondo progetto, a cura di B. Todaro e F. De Matteis, Prospettive, Roma 2012

9. cfr. “Modi e strategie di intervento”, punto n. 3 del Documento INU-Dipartimento DICEA dell’Università di Ancona, 2015, a cura di M. Piazzini, M. Morandi, F. Pugnaloni.  (punto n. 1: La forma della città.  punto n. 2: Aspetti delle trasformazioni recenti).

10. cfr. P. Barbieri, “Geocittà”, ed. Listlab 2015, pag 84

11. “Il recinto metropolitano si configura come un’idea ascalare costitutiva per il progetto della città nel territorio. Il ribaltamento di parti edificate e aree agricole pone nuove condizioni del rapporto tra figura e sfondo: così lo spazio interno tra i recinti edificati, da area di risulta può diventare spazio attivo e strutturante del progetto”, in C.A. Manzo: Recinti metropolitani- op. cit.  Cfr. anche S. Boeri, F. Iodice, “La città eccentrica”, pag. 13. La proposta di un sistema agro-urbano di pendoli trasversali e cluster produttivi sul fiume Sarno è in C. A. Manzo: “Ipotesi Agrourbane - La città in estensione nella valle del Sarno”, Gangemi, Roma 2014; la proposta di luoghi collettivi per la piana è in R. Lucci "Infrastrutture geografiche e strutture urbano-rurali" in Natura e ragione, CLEAN Napoli 2016.

12. M. de Solà Morales, “Progettare città” in Lotus Quaderni 1999 p.63.

13.  Vedi le città di fondazione della bonifica nella pianura pontina e i nuovi borghi (Segezia, Incoronata) nel tavoliere in Puglia; in R. Mariani “Fascismo e città nuove”, Milano 1976; l’opera di C. Petrucci in G. Cioffi: “Architettura e paesaggi agrari, Aracne 2017.

14. C.A. Manzo(a cura di): “Sistemi Agrourbani-La città in estensione  nella piana del Sarno”, Gangemi, Roma 2014; raccoglie i risultati della unità SUN-Napoli 2, responsabile C. A. Manzo con M. Borrelli, E. Carreri, F. Costanzo, R. Lucci, E. Pitzalis, M. Rendina, A. Santacroce; ricerca svolta nel Prin 2009 “Dalla campagna urbanizzata alla città in estensione”, coordinatore nazionale Luigi Ramazzotti (Roma Tor Vergata). I responsabili delle altre unità locali sono: Antonino Margagliotta, (Palermo 2), Francesco Rispoli (Napoli Federico II), Andrea Sciascia (Palermo 1), Giuseppe Strappa (Roma Sapienza). Il volume finale collettivo “La città in estensione”,   Gangemi 2017, è stato curato da Antonella Falzetti.