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Per una centralità della figura dell’architetto
Fabrizio SchiaffonatiPDF






Formazione e multidisciplinarietà

I recenti cambiamenti introdotti negli ordinamenti didattici delle Scuole di Architettura impongono una riflessione sul contributo dei diversi settori disciplinari, sui loro statuti scientifici, nel percorso di adeguamento alla formazione dei futuri architetti. Tanto più necessaria, a fronte di un contributo progettuale delle Scuole che non appare adeguato alla domanda di qualità per gli aspetti ambientali, morfologici, funzionali, tecnologici, espressa da istanze collettive, anche con forme sempre più visibili di partecipazione ai processi di rigenerazione urbana. Entro uno scenario caratterizzato da una crescente complessità, la nozione di progetto non è di semplice circoscrizione, ampliata a specializzazioni sempre più articolate e dettagliate, settorializzata e delegata in molteplici luoghi della sua produzione.
Di quale progetto stiamo parlando? Ancora dell’eredità del Movimento Moderno? Di quella sostanziale unitarietà concettuale che connetteva in unico processo metodologico il progetto, dall’oggetto d’uso, all’abitare, alla città? L’idea di tale competenza multiscalare è tuttora alla base della formazione della figura dell’architetto, nonostante la recente proliferazione di corsi di Laurea e di indirizzi caratterizzanti. Permane un fattore comune prevalente nell’articolazione dei contributi disciplinari, che ha indubbie radici nella cultura razionalista del secolo scorso, che ha portato al superamento della precedente formazione artistica dell’architetto per proiettarlo in una dimensione “politecnica”. Una formazione ibrida, dove cultura umanistica e cultura scientifica, “le due culture”, hanno avuto modo di pervenire a una significativa integrazione, una sinergia tra le figure dell’ingegnere e dell’architetto che nel corso del Novecento ha avuto modo di esprimere una professionalità notevolmente sintonica con le trasformazioni territoriali ed edilizie dello sviluppo economico e sociale.
All’interno del quadro di riferimento odierno, radicalmente mutato rispetto agli ultimi decenni, è importante quindi interrogarci sui possibili tragitti che sono percorribili, per ridare peso al ruolo delle figure chiamate a fornire contributi al progetto di trasformazione del territorio, della città e dell’abitare. Si deve ribadire, senza incertezze e reticenze, uno “specifico disciplinare” ascrivibile a “competenze tecniche”, senza le quali la figura dell’architetto è destinata a regredire alla condizione dell’ancien régime dell’École des beaux-arts. Una regressione in parte già in atto, a partire da una sempre più accentuata “formazione generalista”, senza complementari comprovate competenze tecniche e operative. Come negli esiti dell’architettura postmoderna dove i legami forma-funzione e fisica-costruzione si sono dissolti in una “pratica artistica”.
Le “discipline scientifiche”, tra cui la matematica, la geometria, la fisica, la tecnica delle costruzioni, introdotte dalla riforma d’anteguerra del secolo scorso, hanno avuto un notevole ruolo per la formazione dell’architetto, consolidandone una solida “cultura tecnica” con una “logica formale” per un progetto esito di diversi contributi integrati. Tale statuto disciplinare politecnico richiede oggi di accogliere sempre più aggiornamenti necessari, di area economica, gestionale, di organizzazione dei processi e di scienze ambientali, per far fronte a una formazione di tecnici adeguata alla complessità dei processi produttivi. Sia a scala del progetto territoriale che a quella degli artefatti, in un rapporto dialettico e non subalterno con altri decisori socio-politici.

 

Le ragioni del progetto

La perdita di competenze tecniche da parte dell’architetto, dall’urbanistica all’edilizia, non può che determinare un’assenza di incidenza della sua figura nei processi decisionali, riducendone il numero nell’esercizio di una significativa attività professionale. Viviamo l’epoca del primato dell’architettura internazionale, globalizzata, decontestualizzata. Un’architettura che sovrasta ogni regola urbanistica. Autoreferenziale, ispirata da canoni espressivi non lontani nelle forme comunicative da una “pratica artistica” che legittima trasgressioni e arbitrii, dove il giudizio di valore perde i riferimenti e le regole del passato. Un’architettura del capitale finanziario che ha soppiantato la lezione razionalista e funzionalista, spesso legittimando il provincialismo di interventi di più modesto respiro.
Un esempio emblematico e molto noto, che può rappresentare un significativo termine di confronto per il dibattito, è rappresentato dal progetto Garibaldi-Repubblica a Milano, dove non si è tenuto in alcun conto quanto già elaborato e precedentemente proposto in molti progetti, anche di Maestri, nell’arco di un cinquantennio. Progetti nati in seno all’amministrazione pubblica o attraverso concorsi di architettura che hanno provato a dare soluzione a un ambito di valenza metropolitana e nel contempo sviluppare un progetto urbano di equilibrata riconnessione tra parti di città. Processo del tutto opposto a quello evidenziato nell’esito finale da un’urbanistica di pura invenzione, fatta di sovrappassi, sottopassi, raccordi di piani artificiosamente sovrapposti, accostamenti destrutturati di architetture. Una artificiosità del tutto gratuita rispetto alle condizioni e ai vincoli di partenza, alle dimensioni e alle caratteristiche del sito.
Se ci si muove in tale direzione, le “ragioni del progetto” di razionalità, funzionalità, economicità, appaiono del tutto accessorie, in un processo di centralizzazione decisionale che l’operatore economico svolge, erodendo ogni autonomia disciplinare e sociale del progetto di architettura. Ciò è tanto più visibile alla scala del “progetto urbano” quando, come sempre più spesso accade, non è riscontrabile alcun disegno ordinatore nell’impianto morfologico. Categoria dell’ordine che appartiene a relazioni spaziali, derivate da un approccio antropometrico ed ergonomico dello spazio alle diverse scale, dal manufatto architettonico ai sistemi a rete che infrastrutturano il territorio. Una concezione invece iperartificiale dello spazio antropico consente di percorrere soluzioni che contravvengono programmaticamente ai consolidati statuti disciplinari dell’architettura e dell’urbanistica.
Il nuovo millennio traccia una demarcazione nello scenario territoriale, visibilmente mutato per rapidità e densità di problemi, assetti sociali, configurazioni spaziali e morfologiche, relazioni funzionali. Cambiamenti che stanno sfumando gli stessi confini disciplinari, introducendo altri contenuti per far fronte alle nuove problematiche civiche, economiche e ambientali. Una fase aperta a esiti imprevedibili, che richiede un serrato confronto e una capacità di proposta da parte delle Scuole di Architettura, per rivendicare proprie competenze comunque imprescindibili nella definizione di un progetto urbano dove sia riconoscibile una funzionalità e una qualità spaziale dei luoghi e dei manufatti. Dove quindi le ragioni economiche non sovrastino ogni altra determinazione sia culturale che tecnica del progetto. Pur mettendo in conto le potenzialità delle nuove tecnologie con riferimento ai processi di smaterializzazione, delocalizzazione e informatizzazione, che determinano nuove connessioni tra luoghi e ambiti territoriali, non dovrebbe venir meno la necessità di un’organizzazione dello spazio territoriale, urbano e architettonico riferito ad alcune fondamentali regole tassonomiche, ergonomiche e a una cultura antropologica, alla base della questione ecologico-ambientale da più parti richiamata. Da questo punto di vista, alcune parti dello statuto disciplinare del progetto moderno, nelle sue dimensioni razionaliste e funzionaliste, non vengono meno, e sono necessarie per governare una transizione che non voglia cavalcare mode, figure e rappresentazioni arbitrarie e velleitarie della città e dell’abitare. In opposizione a una progressiva rinuncia a ogni regola morfologica e tipologica, espressione di una “periferizzazione del progetto” che sta pericolosamente prendendo strada, anche a causa dell’assenza di adeguate strutture e uffici tecnici deputati alla pianificazione territoriale, alla progettazione urbanistica e delle opere pubbliche. Attività in ambito pubblico, pressoché del tutto esternalizzata, con prevalente riferimento alla tradizionale libera professione più che a un’offerta di società, aziende e strutture dedicate all’attività di programmazione, pianificazione e progettazione.
Tale situazione esprime chiaramente una generale inadeguatezza del processo edilizio in ambito decisionale, programmatorio e gestionale, soprattutto in raffronto a contesti stranieri da tempo attrezzati a governare le grandi trasformazioni urbane e territoriali, in un’ottica di tempi e modi tali da consentire il controllo delle rilevanti criticità comportate. Ciò ha fatto anche da freno, nel contesto italiano, all’aggiornamento delle tecniche e dei metodi di produzione di piani e progetti, contribuendo a rallentare la stessa evoluzione della professione nelle nuove forme associate e organizzate richieste dalla modernizzazione. L’offerta di beni e servizi, a fronte di una domanda crescente che avrebbe necessitato nuovi approcci e modelli d’intervento, è rimasta pertanto attestata su logiche arretrate e congiunturali, con effetti negativi tuttora evidenti.
Le strutture pubbliche di promozione e controllo dello sviluppo urbanistico e edilizio, nonché quelle delegate alla progettazione e all’attuazione delle opere, hanno rappresentato l’anello debole nello sviluppo delle conoscenze: dall’analisi dei bisogni alle nuove tipologie d’intervento, con un orientamento culturale e politico che ha condizionato e limitato nel contempo la crescita e la formazione di nuove figure tecniche, professionali e dirigenziali. Alla bassa qualità della domanda non ha corrisposto una formazione in grado di confrontarsi con la crescente complessità dei processi organizzativi e gestionali. Responsabilità anche dell’Università, con una formazione inadeguata al governo della riconversione e riorganizzazione dei processi produttivi alla scala territoriale e edilizia, a fronte di una pervasiva innovazione tecnologica. In questo quadro poco aperto all’innovazione, l’Università ha accentuato un ruolo autoreferenziale, poco propensa ad aprirsi a conoscenze e competenze richieste dai settori del terziario e dei servizi.

 

La pratica del progetto

Gli obiettivi delineati finora dai piani urbanistici e edilizi non sono più perseguibili e governabili con le sole previsioni quantitative, richiedono verifiche ben più complesse circa la loro fattibilità, rispetto allo schematico disegno della pianificazione attuativa. Ai nuovi problemi del governo del territorio non corrisponde ancora una completa conoscenza, ora possibile utilizzando appieno le maggiori capacità di analisi, simulazione e previsione in fase di progettazione. Analisi ambientali e di fattibilità, valutazioni economiche e pianificazione degli investimenti, richiedono un nuovo approccio alle diverse scale del progetto, diversamente da una semplice pratica di negoziazione tra amministrazione pubblica e operatori economici.
In questo contesto, pur nei limiti determinati ancora dal mancato adeguamento dei metodi e delle conoscenze, è difficilmente confutabile che alcune coordinate fondamentali di matrice razionalista e funzionalista non possano ancora svolgere un ruolo per un corretto governo dell’urbanistica e dell’architettura. In vista di un futuro che sappia operare una sintesi, sociale economica ambientale, fondata sui requisiti della sostenibilità, e che richiederà l’utilizzo di nuovi strumenti e metodi necessari a innalzare la qualità degli esiti progettuali. A valle della rottura dello schema deterministico dal piano urbanistico al progetto edilizio, dall’organizzazione dello spazio del territorio al progetto architettonico, all’intrapresa economica della costruzione. Se il programma razionalista – con le sue regole, norme, standard, statuti culturali e disciplinari – appare oggi in diverse parti meno efficace, tuttavia non è stato ancora sostituto da nuovi approcci e strumenti altrettanto adeguati. La successione dei Piani di prima, seconda e terza generazione si è esaurita lasciando spazio a un complesso di strumenti congiunturali, parziali e settoriali, privi di un disegno e di un’intenzionalità politica in grado di ricondurli a un’organicità generale. Come per altri ambiti delle società, dove il connotato della fluidità bene esprime la difficoltà a individuare una finalità con un chiaro orientamento. È necessario, quindi, confrontarsi con tale situazione ed esplorare nuove strade.
Il Piano di Governo del Territorio richiede un approfondimento sulle nuove scelte localizzative di grandi funzioni e un aggiornamento dell’impianto normativo che possa consentire una diffusa rigenerazione urbana: termine che sottende, oltre al recupero e alla riqualificazione edilizia, un’azione di rivitalizzazione del tessuto economico e sociale. Prospettiva ambiziosa che richiama l’importanza dell’indirizzo politico-amministrativo, da cui conseguono le scelte urbanistiche, precondizione necessaria per ogni sviluppo organico. Da tempo, invece, le amministrazioni sembrano aver abdicato alla funzione di pianificare il proprio territorio, con un approccio caso per caso, progetto per progetto, con la prevalenza di questioni procedurali e normative in cui la qualità dell’urbanistica e dell’architettura è sovrastata da una “negoziazione” sugli aspetti economici dell’iniziativa. Le scelte di indirizzo e armonizzazione progettuale finiscono quindi per essere delegate impropriamente ai singoli operatori.
Tale ribaltamento dei ruoli contribuisce all’abbassamento della qualità urbana e una marginalizzazione della ricerca progettuale, chiaramente percepibili nell’immagine della città contemporanea, nello sviluppo dei nuovi insediamenti esito di un accostamento casuale di progetti autoreferenziali con scarsa considerazione al contesto generale, alla sua storia e vocazione, anche quando ambiziosi.  Una forma di “colonizzazione” dell’architettura e della struttura urbana da parte del capitale finanziario, nella malintesa convinzione che diversamente gli operatori non troverebbero adeguate motivazioni per intervenire. Si fa così strada una delega impropria ai privati, nell’ambiguità di una trattativa senza una regia pubblica: orientamento basato sull’errata convinzione che l’operatore economico trovi maggiori motivazioni in presenza di una amministrazione senza chiare e vincolanti linee di indirizzo. Accade più spesso, invece, che tale assenza sia percepita come mancanza di chiarezza politica e aleatorietà di un sistema non in grado di garantire continuità alle proprie decisioni. La labilità degli obiettivi d’interesse pubblico, con l’assenza di un disegno e di un progetto urbanistico, non può che indebolire la stessa azione dei privati, determinando incertezza nei tempi e nei modi di attuazione dei programmi.
Il paradigma urbanistico, il ruolo della disciplina e la sua evoluzione concettuale e operativa, rappresenta uno dei temi controversi del governo delle trasformazioni territoriali. Il Piano oggi si configura come un’agenda di progetti promossi dagli operatori privati che avviano una negoziazione il cui esito rappresenta la forza contrattuale dei soggetti in campo. Un percorso basato su lunghe trattative per pervenire a un atto convenzionale, spesso non a riparo da divergenze interpretative e contenziosi con il succedersi delle diverse amministrazioni. Un destino quasi sempre segnato, quello di molti piani urbanistici, che configurano la disciplina come una prassi dagli esiti e dai contorni incerti.
L’ultima fase della trasformazione e dello sviluppo urbano si colloca in questo quadro di incertezza, in un dibattito confuso e contradditorio e in un continuo processo di revisione degli strumenti attuativi, che evidenzia la latitanza di una linea politica, surrogata da un approccio settoriale. Una condizione che per molti aspetti segna anche una problematica rinuncia della stessa disciplina urbanistica e delle sue tecniche. Il contenuto progettuale del Piano in termini di vincoli, localizzazione, organizzazione funzionale e destinazioni d’uso, indicazioni morfologiche e tipologiche, tende sempre più a sfumare in un farraginoso impianto regolamentare e burocratico, non privo di contraddizioni. Un complesso di strumenti nazionali e regionali (PII, PRiU, PRUSST, CdQ …) indicati come anticipazione di una riforma urbanistica complessiva, per ora sempre rimandata. Un’occasione mancata di allineamento ad altri paesi europei che danno priorità a documenti d’indirizzo generale, quali masterplan, plan directeur, piani strategici, sovraordinati rispetto alle pianificazioni attuative settoriali.

 

La Progettazione tecnologica e ambientale

Il progetto urbano e di architettura assume il riferimento della storia come connotato intrinseco alla sua azione. Il confronto disciplinare sui temi dell’architettura e delle relazioni con il paesaggio non può quindi che alimentarsi nella dialettica tra presente e passato. Il settore scientifico-disciplinare della “Tecnologia dell’architettura” (ICAR/12), nell’ampia accezione assunta nel macro-settore “Design e progettazione tecnologica dell'architettura”, indaga le logiche della costruzione alle diverse scale, dal paesaggio al territorio al manufatto, e mantiene viva l’attenzione sui complessi temi dell’ideazione e costruzione dell’architettura, che si fondano sulla conoscenza dei processi e dell’evolversi delle tecniche. I paradigmi relativi alle valutazioni ambientali e di sostenibilità, di verifica della qualità, della fattibilità, con l’approccio esigenziale-prestazionale, le pratiche meta-progettuali e del progetto esecutivo, la conoscenza del quadro dei vincoli (tecnici, economici, normativi, procedurali e operativi), hanno trovato un forte e convinto radicamento nel settore della Tecnologia dell’architettura, in un quadro generale di “Cultura tecnologica della progettazione” in grado di integrare diversi livelli specialistici nella prospettiva teleologica del progetto.
La consapevolezza che le trasformazioni territoriali, urbanistiche e edilizie determinano alterazioni ambientali in gran parte irreversibili è cresciuta, trovando espressione anche nel dettato normativo. L’insieme di prescrizioni, non ancora compiutamente utilizzato, ha trovato accoglimento nell’area della Tecnologia dell’architettura, per tradursi in insegnamenti didattici e strumenti di analisi per il progetto. In un’ottica dove la normativa è un sistema di regole per orientare il progetto con criteri di oggettività e verificabilità, condizione per poterne misurare l’efficacia.
Entro l’ampia cornice dell’area tecnologica, la “Progettazione ambientale” alla base della definizione delle tecniche di progettazione del paesaggio è stata introdotta in Italia alla fine degli anni Settanta, a partire da figure quali quelle di Salvatore Dierna, Virginia Gangemi e Tomas Maldonado, e dalla pratica progettuale di Marco Zanuso, Pierluigi Spadolini, Eduardo Vittoria. Una dimensione della progettazione che indagando i fattori tecnico-organizzativi della produzione industriale ne ha esteso il portato alla dimensione ambientale, dei luoghi del lavoro, dell’abitare e della vita associata. I docenti di area tecnologica nelle Facoltà di Architettura dagli anni Settanta sono stati coinvolti in questo percorso di evoluzione disciplinare, sviluppando una critica a un progetto “formalistico” ingegnerizzato da specialismi non integrati.
Il settore della Tecnologia dell’architettura è impegnato quindi in un dibattito per approfondire il suo contributo all’interno del ciclo progettuale, con una critica a una tecnologia subordinata all’impostazione compositiva. A partire dalla matrice anglosassone del “design” e da una concezione scientifica che fonda le sue ragioni su principi di causalità e razionalità, l’ambito disciplinare è andato articolandosi e ampliandosi, acquisendo anche competenze sulle tecniche e i sistemi decisionali delle fasi progettuali e costruttive, a fronte di una crescente complessità ambientale, tecnica, e gestionale.
In questa evoluzione che coinvolge i settori concorsuali del “Design e progettazione tecnologica dell'architettura”, della “Progettazione architettonica” e della “Pianificazione e progettazione urbanistica e territoriale”, la Progettazione ambientale può assumere un ruolo determinante, e rappresenta una diretta evoluzione della progettazione estesa all’intero ciclo della produzione e dell’inserimento dei manufatti nei diversi contesti. Uno specifico orientamento metodologico che approfondisce gli aspetti di complessità del progetto urbano e del territorio, entro un’ottica multiscalare e multidisciplinare.
Lo studio e la progettazione del paesaggio, e quindi del territorio e della città, ha avuto ampio accoglimento nell’ambito della ricerca nell’area tecnologica, con pertinenza e conoscenze tecniche che ne connotano una specifica valenza. La capacità di interpretare il dato reale complesso e articolato e di fornire soluzioni fondate su una sintesi tra diversi specialismi e approcci, rappresenta un orizzonte significativo per superare i limiti operativi e culturali dell’attuale prassi progettuale. Ciò è tanto vero nella dimensione professionale, come pure nella fase della formazione, per la capacità di verificare l’efficacia del progetto in chiave di simulazione anticipatoria, che dovrebbe rappresentare la competenza principale di una “figura protetta” come quella dell’architetto in ambito europeo.
La situazione descritta richiede la riaffermazione di uno “specifico disciplinare”, inteso anche come la rivendicazione di una competenza fondamentale per governare la qualità e la funzionalità dello spazio antropico, per una dimensione estetica dei luoghi, dei manufatti e degli oggetti che popolano il paesaggio. In assenza di questa prospettiva, che alla luce della crisi ambientale configura un bisogno sempre più percepito ed espresso, si palesa un’ulteriore marginalizzazione della figura dell’architetto. Il che dovrebbe indurre, sia negli ambiti accademici che professionali, a una maggiore responsabilizzazione culturale e deontologica, per riacquisire una massa critica di conoscenze, anche a elevato contenuto tecnico, in grado di riposizionarne la figura in un riconosciuto ruolo sociale e professionale.


Riferimenti bibliografici

Schiaffonati F., Castaldo G., Mocchi M. (2017), Il progetto di rigenerazione urbana. Proposte per lo scalo di Porta Romana a Milano, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, IT.

Schiaffonati F. (2016), Paesaggio Italiano. Viaggio nel Paese che dimentica, Lupetti Editore, Milano, IT.

Schiaffonati F., Mussinelli E., Majocchi A., Tartaglia A., Riva R., Gambaro M. (2015), Tecnologia Architettura Territorio. Studi ricerche progetti, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, IT.

Schiaffonati F. (2014), “Il contesto culturale e la nascita della disciplina”, in AA.VV. (2014), La cultura tecnologica nella scuola milanese, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna, pp. 17-31, IT.