Editoriale

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Tra progetto urbano e città
Alberto Clementi PDF




Per riflettere sull’attualità del progetto urbano in Italia è necessario risalire agli scenari più complessivi della trasformazione urbana e delle politiche per la città di cui è dotato il nostro Paese. In particolare la nuova Agenda urbana a cui sta lavorando da tempo anche l’Italia, su impulso della Unione europea, potrebbe contribuire in modo decisivo a istituire almeno lo sfondo di coerenza per i futuri interventi. Però la nostra Agenda, per la sua inconsistenza metodologica, la debolezza dei propri fondamenti programmatici, e soprattutto per lo stile retrogrado di governo di cui è espressione rimane un banale esercizio di aggregazione degli interventi che i vari ministeri, regioni e città hanno in animo d’intraprendere, piuttosto che una selezione critica di temi e azioni da privilegiare in un approccio partenariale mirato alla soluzione delle più pressanti criticità urbane. Così l’intensa produzione scientifica sull’argomento alimentata dalle università e da altre istituzioni di ricerca rimane sostanzialmente inutilizzata, intanto che continuano a prevalere le logiche settoriali e autoreferenziali con cui sono abituate a muoversi le amministrazioni pubbliche ai diversi livelli di governo.
L’inconsistenza dell’Agenda non è altro che lo specchio fedele di una sconcertante evanescenza delle politiche pubbliche, finora delegate sostanzialmente al livello locale -gravato per di più da pesanti vincoli sulle risorse a disposizione-, mentre lo Stato fin dall’inizio del nuovo secolo sembra aver abdicato dalle proprie responsabilità per una rigenerazione urbana nel segno della sostenibilità ambientale, dell’inclusione sociale e dell’innovazione tecnologica. I recenti segnali di ripresa programmatica da parte del governo Renzi e poi Gentiloni, da esperire prevalentemente sotto forma di bandi concorrenziali tra i Comuni, non riescono a scalfire minimamente i termini del problema. Ci troviamo di fronte a poche azioni generalmente episodiche e frammentarie, inconsistenti o di portata limitata, emergenziali, assolutamente fuori scala non solo rispetto alla gravità raggiunta dalla questione urbana in Italia, ma anche rispetto alle comuni aspettative di normale qualità della vita.
Del resto, dopo troppi anni d’incuria e di desertificazione delle politiche, il pregresso accumulato sta diventando esplosivo, e in molte città il problema principale sembra essere ormai diventato quello di evitare l’ulteriore arretramento delle condizioni di vita, mantenendo i pur modesti livelli di servizio raggiunti fino a oggi, piuttosto che cercare di migliorare finalmente il benessere e i diritti di cittadinanza. Così le città italiane, in aperta controtendenza rispetto a quanto accade in gran parte delle città europee, stanno diventando “sempre meno giuste, coese e vivibili” e la tendenza sembra essere un ulteriore peggioramento delle condizioni abitative per il prossimo futuro (Donolo,2016).
Per affrontare la grave crisi urbana dei nostri tempi non sono certo sufficienti pochi programmi-pilota per le periferie finanziati dallo Stato. Occorre fare appello alla riserva di potenzialità esistenti all’interno delle singole città, e al tempo stesso mettere in gioco risorse mirate con una politica nazionale multilivello place-based in grado di mobilitare i molti attori disponibili, con il finedi ricomporre l’eccessiva divaricazione esistente tra azioni istituzionali e bisogni percepiti dalle comunità locali. C’è bisogno di innovare sostanzialmente modalità e strumenti d’intervento, oltre le farraginose ed episodiche procedure di gara con cui si agisce attualmente, nella prospettiva di una erogazione continua di fondi pubblici su programmi mirati e continuativi. Infine, si richiede una profonda revisione delle forme di governo, ormai del tutto inattuali per le città e per i territori urbani che sono dilagati ben oltre i confini tradizionali.
Si è ormai consapevoli che per la rigenerazione urbana c’è bisogno di più Stato e al tempo stesso di una maggiore mobilitazione delle popolazioni interessate. La prospettiva non è di rafforzare una visione centralistica delle politiche per le città, come del resto non può essere all’opposto di abdicare dalle responsabilità statali decentrando l’invenzione e l’attuazione dei progetti al livello locale. Appare piuttosto indispensabile portare a coerenza le diverse forme d’intervento, equilibrando la regia nazionale con la valorizzazione di variegate esperienze dal basso, secondo un dosaggio che va articolato ogni volta in funzione della criticità delle situazioni su cui si agisce. La soluzione ai problemi delle città non potrà venire in definitiva dal solo Stato, ma da una convergenza virtuosa e dalla comunione d’intenti con gli attori locali: imprese, amministrazioni, cittadini. Insomma, da una spinta congiunta al tempo stesso proveniente dal basso e dall’alto (Florida, 2017).
Per impostare politiche urbane efficaci e commisurate alla natura e alla scala delle criticità da trattare, appare in ogni caso indispensabile ricorrere al leale partenariato tra i diversi livelli di governo, secondo quanto effettivamente già prospettato dalla Commissione europea, ma articolando il partenariato con una geometria appropriata dei poteri e delle responsabilità, da definire volta per volta in funzione degli specifici contesti d’intervento. Resta comunque l’opportunità di avvalersi quanto più possibile di risorse sussidiarie, coinvolgendo i mercati e soprattutto le società locali, con il proposito di far leva sulle loro capacità di protagonismo per mettere in opera gli interventi prefigurati (Urban@it, 2017).
Per ciò che in particolare riguarda l’architettura e l’urbanistica, appare ormai evidente che i saperi disciplinari consolidati si trovano con le armi spuntate di fronte alla profonda metamorfosi urbana in corso, in cui il futuro-speranza vagheggiato dalla modernità sembra rovesciarsi nel suo opposto, un futuro-minaccia da cui difenderci ( Benasayag, Schmit, 2004). Impotenti rispetto ai meccanismi perversi di una fiscalità fondiaria drogata, in cui la disciplina degli oneri di urbanizzazione sembra finalizzata soprattutto a ripianare la spesa corrente dei comuni, incentivando di fatto il consumo infinito di nuovi suoli extraurbani. Al tempo stesso, i contenuti della pianificazione appaiono generalmente vecchi e farraginosi, orientati prevalentemente al governo delle rendite fondiarie e immobiliari piuttosto che al miglioramento delle prestazioni urbane e al governo efficace dei processi di mutamento in atto. Il progetto urbano a sua volta appare manifestamente in crisi, e quando anche viene praticato dalle amministrazioni più volenterose, continua a configurarsi come un insieme di opere funzionali disgiunte, aggregate spesso pretestuosamente con strumenti del tutto inappropriati quali i “Piani per le città”, varati qualche tempo fa dal ministero delle Infrastrutture (DL n.83/2012), nonché i Programmi per la riqualificazione delle aree urbane degradate  (ottobre 2015) e quelli per il recupero e messa in sicurezza delle periferie ( maggio 2016).
Gran parte di queste esperienze in atto testimonia di fatto una sostanziale rinuncia alla progettualità urbana, intesa come metodo per dare forma condivisa al futuro della città, favorendo per contro soluzioni episodiche e frammentarie, purché immediatamente finanziabili e cantierabili. In questa situazione regressiva si avverte il bisogno urgente di introdurre nuovi paradigmi, innovando profondamente quadri cognitivi, idee e strumenti per l’intervento. Ad esempio ci rendiamo conto che il progetto urbano dovrebbe emanciparsi dalla riduttività formalistica del suo approccio corrente, per diventare invece occasione di convergenza place-based e people-driven, a geometria variabile per molteplici politiche di settore: edilizie, urbanistiche, ambientali, dei trasporti e opere pubbliche, insieme a quelle di coesione sociale, di crescita dell’occupazione e di garanzia della sicurezza. Configurandosi in definitiva come un prezioso strumento strategico e al tempo stesso conformativo ai fini dello sviluppo sostenibile, inclusivo e competitivo delle città (Clementi, 2017).
Lo stesso piano urbanistico a sua volta è destinato a cambiare sensibilmente, diventando uno strumento di valenza strategica capace d’instaurare rapporti di stretta interdipendenza con programmi di sviluppo locale e progetti urbani, e mitigando di conseguenza le proprie ataviche rigidità a favore di soluzioni più adattive, flessibili e processuali con cui accompagnare il mutamento.
Tutto ciò appare invero assai distante da quanto le amministrazioni pubbliche stanno facendo concretamente, e altrettanto lontano anche dalle questioni all’ordine del giorno nell’aspro dibattito politico e sociale in corso, in cui la cultura urbanistica e architettonica appaiono sempre più ininfluenti. In questa situazione si avverte acutamente il bisogno di una nuova cultura urbana trasversale in grado di oltrepassare le tradizionali partizioni disciplinari, per volgersi verso “politiche più integrate capaci intrecciare scale e materiali, strategiche rispetto al medio termine, mobilitanti di tutte le risorse cognitive e operative disponibili, intrinsecamente sostenibili e mirate alla produzione di coesione sociale” (Donolo, 2016).
In particolare per ciò che concerne le forme di governo più appropriate, le nuove politiche urbane dovranno diventare necessariamente multilivello e partenariali, con un approccio fondamentalmente pattizio in particolare tra il governo centrale e quello locale (Urbani, 2017). Il riferimento più adatto non sarà quello degli attuali Patti per lo sviluppo che vengono siglati ogni tanto dal governo e dalle amministrazioni regionali o metropolitane, meri contenitori di un insieme di opere da finanziare con fondi pubblici provenienti da un paniere centrale e regionale. Diventerà piuttosto l’esito non scontato di un processo di confronto negoziale, costruito a partire dalla comune condivisione delle questioni da trattare prioritariamente e dello scenario al futuro che s’intende perseguire, rinviando a un insieme di intese parziali la successiva messa in opera dei singoli programmi.
Attraverso un serrato confronto dialogico diventerà possibile costruire una visione sufficientemente condivisa del futuro dell’area di intervento, corredandola dei principali obiettivi da conseguire con il concorso dei vari attori in gioco. La visione dovrà essere aperta e scorrevole, e tuttavia ben delineata, per fungere da quadro di coerenza degli interventi in discussione. Infine ci sarà da selezionare gli specifici programmi d’azione di valenza strategica per la risoluzione delle criticità individuate. Visione e programmi d’azione costituiscono il cuore del Patto locale, il quale dovrebbe essere preferibilmente traguardato su una scadenza a medio termine, per avere tempo di mettere mano alle questioni più rilevanti e assistere ai primi effetti degli interventi.
Circa le modalità di attuazione dei programmi dovrebbe diventare possibile riconsiderare in modo più maturo lo strumento dei progetti urbani, i quali comunque saranno da riformare profondamente. Come abbiamo sostenuto in altre occasioni, la prospettiva diventa adesso quella di progetti incrementali declinati al minuscolo, con un insieme disgiunto ma convergente d’interventi privati e pubblici di dimensioni eterogenee e scale differenti, costruiti soprattutto dal basso, piuttosto che megaprogetti per grandi opere e pezzi di città decisi dal centro nell’intesa con gli attori dello sviluppo più influenti o con i grandi investitori privati (Clementi, 2017).
Non è detto dunque che il progetto urbano con il suo indubbio valore aggiunto debba perdere la sua attualità a favore di altre soluzioni congiunturali ed estemporanee, meno impegnative per la costruzione del consenso, e magari più adatte per la raccolta dei fondi d’investimento pubblici e privati, e più fattibili ai fini di un’attuazione immediata.
Certo, è preferibile limitare la complessità del progetto quando appare eccessiva rispetto alle deboli capacità di costruzione del consenso da parte della politica dei nostri tempi. Il progetto urbano dovrebbe allora essere sottoposto a una cura dimagrante, asciugandolo a pochi interventi veramente essenziali, tra loro interdipendenti, e in grado di trainare una massa eterogenea di possibili azioni collaterali, espressione a loro volta del grado di estensione raggiunto da processo di mobilitazione sociale. Dove gli interventi-cardine, in particolare per le infrastrutture, saranno da considerare come generatori di rendite da reinvestire parzialmente nella produzione di servizi e attrezzature collettive locali, all’interno di uno scambio trasparente sancito dal Patto locale e legittimato dall’adeguamento della strumentazione urbanistica. In definitiva l’approccio da adottare sarà di natura sostanzialmente possibilista, e il successo del progetto urbano dovrà essere rinviato alla misurazione partecipata circa gli effetti di miglioramenti urbano indotti localmente.
Sotto questo profilo un passaggio chiave del procedimento è la scelta e la delimitazione dell’area d’intervento, da considerare non tanto un dato di partenza quanto piuttosto un costrutto, che impone responsabilità di decisione condivisa nell’ambito del Patto locale. Dove i contenuti del progetto urbano -più ancora che dalle condizioni del contesto fisico- dipendono dalla effettiva combinazione delle logiche perseguite da molteplici attori locali e sovralocali che si dichiarano interessati a promuovere un’azione congiunta, alla luce di obiettivi ispirati dalla visione condivisa dei traguardi da raggiungere. 

Rispetto alla questione ricorrente dell’innovazione del progetto urbano, EWT ospita in questo numero 16 una seconda tornata di riflessioni e contributi, che articolano e approfondiscono il quadro già emerso in occasione del precedente numero.
La consapevolezza di dover guardare ai processi urbani in atto per capire le riforme possibili è al centro del contributo di Gaetano Fontana, come noto l’ispiratore principale della stagione dei Programmi complessi inaugurata nel nostro Paese alla metà degli anni ’90. La tensione culturale che allora accomunava il nuovo quadro politico per l’elezione diretta dei Sindaci, il promettente ruolo delle città come motore dello sviluppo e le attese di riforma urbanistica purtroppo è stata spazzata via dalla grande crisi dell’ultimo decennio. Si è aperto da allora un vuoto inquietante, in cui l’azione governativa appare come sospesa e sostanzialmente assente. Al preoccupante decadimento di tutto il sistema amministrativo, che aggrava ulteriormente un problema endemico del nostro Paese, si è aggiunta la sfiducia crescente verso le capacità di autocorrezione dei mercati, e la questione urbana sembra ormai essere sfuggita di mano a tutti, Stato e mercato. Non basta di certo il rammendo delle periferie propugnato da anime candide come Renzo Piano, perché è in gioco ormai una vera e propria “risistemazione ortopedica” delle città, e non si vede chi possa esserne il promotore credibile.
Nell’attuale involuzione afasica dell’urbanistica, dell’architettura e del sistema di governo urbano -come osserva Fontana- è il cinema a parlarci in modo più pregnante delle vite nelle nostre periferie. Sta emergendo in effetti un nuovo cinema della realtà, che affonda le sue radici nel degrado, nella fatica di vivere e nell’aggressività interpersonale, e che è disposto ad abbandonare i codici più familiari e rassicuranti per inseguire nuovi linguaggi e culture alternative. Così la periferia sembra essere diventata un laboratorio di sperimentazione creativa, in cerca di nuove estetiche da contrapporre al mito della “Grande bellezza” di Sorrentino (Coen, 2017).
Questo cinema a suo modo neo-realista cerca la realtà “dove si manifesta in maniera più palese, nelle ferite nei conflitti e nei bisogni” (De Paolis, 2017). E investe soprattutto lo spazio sociale della strada, piuttosto che il chiuso delle abitazioni dove hanno modo di scatenarsi con più facilità i drammi individuali della borghesia. Però è riduttiva una narrazione solarizzata, Suburra che si contrappone alla Grande Bellezza. Piuttosto, il cinema di questi anni sembra capace di costruire una varietà di circostanze esistenziali che scardinano i luoghi comuni e costringono a ripensare criticamente ai paesaggi mentali della città contemporanea, a Roma come in tante altre grandi e piccole metropoli del nostro Paese.
D’altra parte non è certo il cinema che può trovare le soluzioni – e neppure l’arte più sperimentale, che con le sue invenzioni cerca di ricucire lo strappo culturale della periferia con la città ufficiale, proteggendo a suo modo gli esclusi e i sofferenti. Come si vuole fare ad esempio con il “Museo dell’altro e dell’altrove” a Metropolitz sulla via Prenestina, un’iniziativa nata dai movimenti di lotta per la casa e assai apprezzata da Marc Augè come super-luogo in cui l’arte vuole proteggere la vita.
Lo stesso Fontana nella conclusione propositiva del suo complesso ragionamento sull’attuale fase delle politiche urbane non può che rinviare a uno scenario possibile di cambiamento sui tempi medio-lunghi, in cui le città metropolitane potranno auspicabilmente acquistare maggiore autonomia decisionale, e porsi finalmente al centro delle politiche nazionali di sviluppo, diventando a vario titolo soggetti politici al fianco degli organi centrali. Uno scenario quanto mai interessante, in cui l’intreccio pervasivo tra flussi e luoghi potrebbe finalmente indurre a stemperare l’eccesso di localismo che è il peccato originale delle politiche per le nostre città, a favore di nuove piattaforme urbane multiscalari di inserimento nei circuiti dell’economia globale, un po’ come sta cercando di fare Milano con esiti ancora altalenanti.
Il progetto urbano sarà allora figlio di questa strategia di profonda riorganizzazione degli assetti di governance multilivello tra verticale e orizzontale, con un approccio prevalentemente pattizio il quale dovrebbe aiutare a liberare i progetti dall’eccesso di lacci e lacciuoli che ingabbiano e distorcono le potenzialità trasformative in gioco. Il nuovo progetto urbano è destinato a diventare una strategia verificabile in modo rigoroso e trasparente circa i propri effetti sul miglioramento della qualità urbana, in un bilancio di costi ed efficacia degli investimenti che potrà finalmente essere sottratto alle logiche riduttive della speculazione finanziaria per essere restituito alla valutazione di una rinnovata democrazia consultiva, alimentata dalla partecipazione attiva delle popolazioni locali.
Il dossier riferito all’esperienza di Rotterdam ci dice che la progettualità impedita con interventi “figli di un Dio minore”, episodici ed estemporanei purché immediatamente cantierabili, è un problema soprattutto italiano, con pochi riscontri in Europa. Rotterdam, nonostante la crisi che l’ha investita, è rimasta una fucina di progetti urbani, che – come osserva Castigliano, curatrice del dossier presentato in questo numero- nel loro inverarsi danno luogo a contrasti dirompenti tra architetture smisurate, flussi pervasivi di traffico di merci e persone, e spazi pubblici impreziositi da una cura straordinaria. Ne emerge una forma urbana d’insieme eterogenea e frammentaria, a misura del continuo divenire di una metropoli in rapido cambiamento, ben pianificata nei suoi assetti fondamentali e tuttavia ancora aperta alla aleatorietà dei progetti e delle loro forme espressive. Qui i progetti, pur notevolmente diversi tra loro, sono mirati complessivamente a valorizzare l’acqua, l’architettura e la cultura come risorse strategiche per il futuro della città, al pari della enorme e complessa macchina portuale, la maggiore in Europa e fino all’inizio del secolo la più trafficata al mondo, superata poi soltanto da Singapore e Shangai.
Lo spregiudicato eclettismo delle forme urbane trova riscontro nella variegata mescolanza di etnie e culture delle molte popolazioni che abitano Rotterdam, una città meticcia e interculturale come poche altre in Olanda. Qui il progetto si carica anche di una importante valenza civile. Diventa infatti il modo più efficace e partecipato per provocare il confronto e trovare compromessi sostenibili tra i valori perseguiti da gruppi di abitanti profondamente diversi tra loro, e spesso incapaci perfino di esprimere i loro bisogni e attese di vita.
I progetti a valenza urbana più significativi proposti dall’esperienza di Rotterdam evocano nel loro insieme una tangibile valorizzazione della infra-natura costituita dal sistema delle acque, del verde e degli spazi pubblici, con un approccio che stimola programmaticamente la progettazione partecipata, e che anzi tende ad assumere l’ossatura partecipativa come presupposto di qualsiasi azione di rigenerazione urbana. I progetti scelti da Castigliano e presentati da EWT esemplificano bene questa peculiarità di Rotterdam, un vero banco di prova delle culture progettuali più avanzate nella ricerca di una città più sostenibile ambientalmente, più coesa socialmente e più creativa culturalmente.

 

Riferimenti bibliografici


Benasayag M.,Schmit G., 2004, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano
Clementi A., 2017, Verso la riforma del progetto urbano, EcoWebTown, n.15
Clementi A., 2016, Forme imminenti. Città e innovazione urbana, LIST
Coen E., 2017, Apocalypse Rome, in L’Espresso, n.47
De Paolis R., 2017, Nuovo cinema realtà, in L’Espresso, n.47
Donolo C., 2016, Prefazione, in “Sbilanciamo le città. Come cambiare le politiche locali”, Lunaria, Roma
Florida R., 2017, The New Urban Crisis, Basic Books
Urbani P., 2017, Progetto urbano. La visione del giurista, EcoWebTown, n.15
Urban@it, 2017, Terzo Rapporto sulle città, il Mulino,2018