Editoriale

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Verso la riforma del Progetto urbano
Alberto Clementi PDF




Come abbiamo già affermato nell’editoriale del numero precedente, che qui richiamiamo letteralmente, è sotto gli occhi di tutti la profonda crisi che negli ultimi anni ha investito il progetto urbano, almeno in Italia. Si tratta di una crisi dovuta in gran parte ad alcuni suoi difetti costitutivi, quali l’eccessiva rigidità, farraginosità e formalismo, aggravati dall’esposizione a una prolungata recessione economica, che ha scoraggiato gli investimenti urbani a medio e lungo termine su operazioni di elevata consistenza dimensionale e d’inevitabile complessità attuativa. Il risultato è che questo strumento è diventato sempre meno adatto alla ricerca del consenso immediato della cittadinanza e alle necessità operative delle attuali politiche urbane, sempre più congiunturali e tendenzialmente rivolte a privilegiare singoli interventi immediatamente cantierabili, non importa se al difuori di una qualsiasi visione d’insieme. Del resto il progetto urbano piace sempre meno non solo agli investitori, alle amministrazioni e all’associazionismo locale, ma anche ai costruttori, che non vogliono rischiare troppo e si accontentano di agire per piccole quantità da immettere subito su un mercato a crescente volatilità. Per di più molti architetti si dimostrano stranamente compiacenti di fronte a questa pesante mutilazione del ruolo dell’architettura, sublimandone la marginalità con il rilancio della poetica del frammento, che a ben guardare serve soprattutto a liberare di eccessive responsabilità il progetto, consegnandolo alle gratificanti sperimentazioni solipsistiche sul linguaggio e sulle tipologie. Infine gli urbanisti ortodossi, che da lungo tempo non riescono a risolvere l’annoso dilemma tra piano e progetto, e attanagliati dall’imbarazzo finiscono generalmente per avallare la rinuncia al progetto, pur di mantenere il primato del piano e la sua inverosimile previsione al buio dei progetti attuativi.
Come emerge anche da questo numero di EWT, la percezione della gravità della crisi non è peraltro molto diffusa tra gli addetti ai lavori. Le proposte degli architetti tendono piuttosto a migliorare e arricchire di contenuti il progetto urbano tradizionale, come se il quadro non fosse radicalmente mutato rispetto agli anni ’80, quando ad esempio veniva teorizzata da Bruno Dente la “metropoli per progetti” ( Dente et al. 1990)  o quando Secchi e Gregotti  esploravano le potenzialità del disegno urbano rispetto sia al suolo che al contesto morfologico della città esistente ( Secchi, 1989; Gregotti, 1993). E quando la città, dopo la profonda ristrutturazione avvenuta negli anni ‘70, non aveva ancora conosciuto la metamorfosi delle condizioni economiche, sociali e tecnologiche che sostanziano la città contemporanea (Kwinter, 2010-11).
Oggi è seriamente in discussione la praticabilità del progetto urbano, di fronte alla sua strisciante rimozione dalle agende urbane tanto delle metropoli che delle città minori. Occorre impegnarsi molto se si vuole tentare di recuperare la sua credibilità, opponendosi alla scomparsa definitiva di un metodo che rimane peraltro indispensabile almeno per evitare sprechi e produrre valore aggiunto nei processi di trasformazione della città esistente. Non basta migliorare l’efficacia dei suoi dispositivi di attuazione. C’è a mio avviso da rivederne criticamente l’intero impianto di pensiero e adeguarlo alle nuove condizioni della città contemporanea. Si tratta in particolare di assumere la prospettiva più realistica dei progetti incrementali declinati al minuscolo, con un insieme disgiunto ma convergente d’interventi di dimensioni eterogenee, costruiti dal basso, piuttosto che megaprogetti per grandi opere e pezzi di città decisi dal centro nell’intesa con gli attori dello sviluppo più influenti. Diventerà così più agevole assecondare criticamente i processi di adattamento graduale dell’esistente, attraverso cui cercare di assorbire senza troppi traumi i mutamenti epocali indotti dalle incombenti innovazioni tecnologiche, sociali ed economiche della città del Terzo Millennio (Burdett , 2014) .
In questa prospettiva il Progetto Urbano tende a ridefinirsi come strategia flessibile di guida della trasformazione, a geometria variabile pubblico-privato, sorretta da una visione d’insieme a medio termine, condivisa ma non coercitiva, che dona il senso complessivo da perseguire e che garantisce la tutela degli interessi differenziati più rilevanti. Poi una varietà congiunturale d’interventi a diversa scala congruenti con la visione ipotizzata, declinati secondo le mutevoli circostanze e i vincoli del contesto, e messi in forma nei tempi e nei modi resi possibili dall’evolvere della situazione. Dunque pochi interventi strategici, dotati di capacità di trascinamento e generatori di effetti collaterali significativi, come accade in particolare con le opere d’infrastrutturazione sostenibile, con le nuove centralità urbane e in generale con i nodi di rilevanza strategica. Poi una moltitudine aperta ed eterogenea di diversi interventi complementari, variamente combinati ma comunque convergenti con le finalità del progetto, e applicati a un intorno spaziale significativo rispetto agli interventi trainanti.  
Cambia di conseguenza anche la sua natura: non più proiezione al futuro di prefigurazioni  disegnate rigidamente, in modo autoriale e talvolta fin troppo impositivo come propugnato dalla modernità classica; ma piuttosto stimolo operativo e morfologicamente qualificato, attraverso cui innescare dialogicamente una molteplicità di trasformazioni del paesaggio urbano, tendenzialmente autopoietiche e autobilanciate, inquadrate a loro volta in una visione d’insieme, processuale e adattabile, assunta come riferimento socialmente condiviso per orientare il divenire della città.
Il Progetto urbano, in questa nuova prospettiva di città autocatalitica ( De La Pena, 2013), tende in definitiva a diventare una strategia di rescaling a guida pubblica locale, aperta al confronto partecipato con la popolazione e con gli attori dello sviluppo; una strategia tendenzialmente multi-settoriale, multi-attoriale e trans-scalare, capace di combinare flessibilmente reti infrastrutturali e spazi catalitici a elevata qualità, innescando una varietà di interventi prioritari a diversa grana e un insieme di azioni complementari che hanno effetto cumulativo sul paesaggio (Clementi, Pozzi, 2015). Gli interventi nel loro insieme dovranno essere finalizzati a migliorare le condizioni di funzionalità urbana, di abitabilità e di qualità diffusa del contesto, offrendo al tempo stesso condizioni spaziali di accesso al welfare locale quanto più egualitarie possibile.
In particolare il nuovo Progetto urbano è chiamato a declinare le diverse modalità attraverso cui si realizza concretamente il principio di sostenibilità dello sviluppo, contemperando criticamente le esigenze di sostenibilità ambientale, sociale ed economica delle trasformazioni, e valorizzando in modo riflessivo la sua congruenza rispetto agli obiettivi ultimi di qualità insediativa e paesaggistica delle trasformazioni, derivati generalmente dai piani vigenti. La molteplicità e complessità delle dimensioni in gioco favorisce peraltro il ricorso strumentale alle straordinarie potenzialità delle nuove tecnologie, utili per calibrare al meglio le soluzioni migliori perché più efficaci funzionalmente, più condivise socialmente e più fertili per le ricadute sull’economia locale.
Facendo riferimento alle diffuse tendenze alla sostenibilità ambientale e allo smartness che ormai stanno monopolizzando l’esperienza internazionale delle città, e senza incorrere in quello snobismo autoreferenziale che troppo spesso porta a liquidare frettolosamente le innovazioni possibili senza rimettere in discussione i paradigmi disciplinari dell’architettura, si può auspicare che la nuova forma del Progetto urbano possa nascere alla confluenza operativa delle diverse tradizioni del Sustainability Sensitive Urban Design, del Land Smart Approach e dell’Architettura orientata al paesaggio e al contesto,  configurandosi in definitiva come un EcoWeb Urban Design capace d’incorporare criticamente la pluralità delle sue dimensioni costitutive, espressione a loro volta della peculiare ecologia relazionale associata allo spazio specifico del progetto ( Clementi, 2016).
Diverse e impegnative sono le conseguenze di questo nuovo modo d’intendere il Progetto urbano. Tra le altre, spicca l’assoluta necessità di cambiare profondamente l’urbanistica convenzionale, troppo orientata al governo della rendita fondiaria, indifferente di fatto ai profondi rivolgimenti della città contemporanea, impantanata in procedure e strumentazioni d’intervento vischiose e burocratiche, che deprimono la progettualità e soprattutto sono incapaci d’infondere speranze per il futuro che incombe.
La nuova urbanistica dovrà diventare l’espressione di una strategia di sviluppo sostenibile che guarda invece con fiducia all’avvenire della città, promuovendo un’effettiva capacità di governo attivo delle trasformazioni dell’esistente attraverso pochi Progetti urbani selettivi, socialmente condivisi, di valenza al tempo stesso urbanistica, paesaggistica, sociale ed economica; e assicurando nel contempo una corretta gestione dell’intero patrimonio insediativo, con poche regole ben comprensibili, applicate ai singoli contesti locali, facili da gestire e sottratte alla discrezionalità degli uffici comunali di urbanistica.
Il Piano Regolatore, da considerare di natura strategica e al tempo stesso conformativa, assumerebbe di conseguenza la forma di un Quadro di coerenza degli Assetti insediativi e dei Progetti urbani prioritari, a loro volta correttamente inseriti nel paesaggio, e accompagnati da verifiche preliminari di fattibilità tecnica, amministrativa, economica e sociale. Insieme ai Progetti urbani, concepiti come si è detto in modo adattabile e programmaticamente evolutivo, dovrebbero essere definite le Norme attuative che disciplinano la trasformazione dell’esistente, e che garantiscono la qualità diffusa degli interventi nell’ambiente insediativo con disposizioni ben calibrate e applicabili con estrema semplicità ai singoli contesti.
Per risolvere l’inevitabile contraddizione tra i tempi del piano e quelli dei progetti, il piano urbanistico generale potrà incorporare i progetti già maturi per le intese, ipotizzare altri progetti necessari, e soprattutto aprirsi all’indeterminatezza di ulteriori progetti potenziali, che prenderanno forma solo quando si saranno presentate le condizioni adatte di mercato e di sbocco alle attese sociali prevalenti. Anziché tuttavia ricorrere a continue varianti di un piano sovradeterminato, sarà preferibile ricorrere a un’urbanistica per accordi, cercando in ogni caso di non sovvertire le scelte di fondo individuate in precedenza dal Quadro di coerenza del Piano regolatore.
Se per il Piano Regolatore sarà opportuno fissare un quadro di coerenza sufficientemente stabile e di medio termine, che funga da garanzia per la tutela degli interessi pubblici prioritari e da limite invalicabile per gli ambiti affidati alla contrattazione ( fissando in particolare la cornice per le opere compensative richieste ai privati), per i singoli progetti urbani è verosimile invece ipotizzare una maggiore fluidità delle previsioni, commisurandole tra l’altro all’evoluzione delle dinamiche ( e delle conflittualità ) sociali, economiche e ambientali dello spazio locale.
Sotto questo profilo anche per il progetto urbano c’è da predisporre una specifica visione al futuro, enunciata nel Master plan insieme all’Agenda dei principali progetti multiscalari e multiattoriali che la inverano a breve scadenza. Tuttavia in questo caso si può tenere adeguato conto della crescente instabilità e imprevedibilità del quadro programmatico e politico-istituzionale, rinunciando eventualmente alla canonica sequenza logica: prima la visione, poi i progetti d’intervento. Il progetto urbano potrebbe allora configurarsi come un’operazione multiscalare, scorrevole nel tempo, che prefigura dialetticamente ( o aggiorna) più volte la visione al futuro, e contestualmente individua la pluralità dei progetti locali della trasformazione effettivamente fattibili e da mettere eventualmente a concorso. Una sorta di progettazione intrecciata circolarmente e interscalarmente, che affronta in modo concomitante sia la fase di definizione del quadro d’insieme che quella dei progetti attuativi, come del resto accade in un normale processo di elaborazione del progetto. Solo che in questo caso c’è da evitare accuratamente il rischio di modifiche al ribasso rispetto alle previsioni iniziali, a scapito soprattutto degli interessi pubblici, come accade generalmente quando non sono state predisposte adeguate garanzie. Ecco dunque l’esigenza di assumere per il progetto urbano e il suo adattamento continuo specifiche procedure argomentative e negoziali, da sottoporre a un istituto simile al débat public francese, al fine di conferire trasparenza e legittimità alle scelte in divenire. E poi di ricorrere sistematicamente a processi di apprendimento istituzionale, che consentono di prendere in carico gli effetti delle azioni attuate, orientando le possibili correzioni in corsa.
La difficoltà maggiore in questo nuovo modo d’intendere il progetto urbano sta nella necessità di riformare l’amministrazione pubblica, in particolare a livello comunale. Si tratta di affiancare alla gestione delle funzioni tradizionalmente attribuite a questo livello del governo pubblico, un’amministrazione per progetti che richiede strutture e competenze specifiche, e che soprattutto impone l’esercizio di discrezionalità e la conseguente assunzione di responsabilità da parte dei funzionari degli uffici comunali, e non solo degli organi politici. Purtroppo l’esperienza insegna che in assenza di oscure convenienze, l’atteggiamento dei funzionari è di evitare il minimo rischio, scoraggiando di fatto la promozione di quei progetti che devono guadagnare sul campo la propria legittimità, e dimostrare adeguatamente le convenienze pubbliche alla trasformazione. E la situazione attuale sta perfino peggiorando, per la generale involuzione del dibattito sulla città e per la manifesta incapacità del mondo politico a coglierne l’importanza cruciale nel cambiamento dell’economia e della cultura contemporanea.
Queste rapide battute sull’innovazione necessaria per restituire utilità ed efficacia al progetto urbano dimostrano la grande difficoltà dell’impresa, che impegna a una profonda revisione delle culture tecniche del progetto insieme alla ristrutturazione degli apparati amministrativi nelle loro strutture e modalità di funzionamento, in un momento in cui tra l’altro sta aumentando la pressione della magistratura contro il dilagare del malaffare e si è accentuata la sensibilità dell’opinione pubblica nei confronti delle operazioni urbanistiche di maggiore impatto. E soprattutto richiede una cultura politica più matura, in grado di misurarsi con la realtà delle cose e delle poste in gioco senza ricorrere alla scorciatoia delle rassicuranti ideologie, ispirate all’immediatezza della comunicazione piuttosto che al confronto di merito sulla sostanza delle decisioni da prendere.
La vicenda del nuovo stadio a Roma è esemplare sotto questo profilo, per la rimozione del progetto urbano e la sua sostituzione con l’accordo politico per una sommatoria di soluzioni puntuali, che rinviano al primato dei singoli oggetti e a considerazioni di opportunità del tutto indifferenti al contesto d’insieme, attribuendo invece un’ importanza taumaturgica alle quantità da realizzare; sicché un progetto diventa accettabile se soltanto si dimezzano le volumetrie a disposizione, indipendentemente dagli assetti insediativi previsti e dalle qualità conferite al contesto. Del resto a Roma in questa vicenda la posta in gioco è stata molto alta per la rilevanza delle convenienze elettorali indotte. Così, per venire a capo di un acceso confronto politico, l’amministrazione attuale si è dimostrata disponibile a rimangiare le proprie convinzioni in materia urbanistica, accettando una soluzione di sviluppo incompatibile con il piano regolatore vigente.
E comunque, anziché valutare l’ammissibilità del nuovo progetto sotto il profilo della sua funzionalità, sostenibilità ambientale, sociale ed economica, e qualità urbana complessiva, si è limitata a dimezzare le volumetrie previste in una precedente versione progettuale già assentita dall’amministrazione precedente, sopprimendo gli edifici più alti e rinunciando anche ad alcune infrastrutture indispensabili per l’accessibilità e le connessioni con la città, comunque a carico degli investitori privati a titolo di oneri compensativi. Nessuna attenzione alla qualità, al funzionamento complessivo e all’idea di città sottesa da questa nuova area di sviluppo da realizzare in deroga al piano; piuttosto un confronto accanito sugli indici di edificabilità, sulla consistenza delle singole opere, come lo stadio o il ponte di collegamento con la città, e sulla scelta delle tipologie edilizie, concluso con il deludente ritorno a tipologie usurate a forte impegno di suolo, non diversamente del resto da quanto si è fatto nell’indecente processo di costruzione delle periferie circostanti.
Per ironia della sorte, la procedura del progetto urbano era stata espressamente regolamentata nell’ambito del nuovo PRG. Una procedura che si era rivelata per la verità fallimentare, dal momento che nessuno dei progetti urbani in programma si è realizzato, suscitando le sconsolate riflessioni critiche di Gregotti  (incaricato del progetto per Madonnetta, nella periferia sud-ovest di Roma). Tuttavia questa procedura avrebbe consentito almeno di valutare meglio un progetto imprevisto come quello per il nuovo stadio, bilanciando in modo più equilibrato le attese speculative dei promotori con le convenienze pubbliche, in un’area ricca di elevate valenze naturalistiche, ambientali e paesaggistiche.
Alla fine questa vicenda testimonia l’ennesima sconfitta del progetto urbano e più in generale dell’urbanistica romana, scavalcata direttamente dalle intese politiche tra l’amministrazione comunale e i promotori immobiliari, nel segno dell’urgenza per l’apertura dei cantieri (imposta naturalmente dagli investitori) e delle procedure utilizzate dal Comune per vincere contro le infinite resistenze, che a Roma come altrove in Italia si oppongono a qualsiasi progetto di modifica dell’esistente.

Queste e altre riflessioni sull’attualità del progetto urbano sono al centro del nuovo ciclo di EWT, che assume questo tema come il fondamento di una nuova stagione progettuale per le città in controtendenza rispetto alle dinamiche in atto, che -come si è più volte ricordato- sembrano volgere invece verso una sua crescente esautorazione a favore di una frammentazione episodica e incoerente di interventi immediatamente cantierabili.
In questo numero inaugurale ci si è rivolti ad autorevoli interpreti della cultura del progetto, chiedendo loro d’interpretare la situazione attuale e le prospettive d’innovazione possibile. Le risposte sono variegate e non sempre in sintonia tra loro. Tutte peraltro convergono nel rilanciare convintamente la necessità di questo modo d’intervenire sulla città, nonostante le acute difficoltà del momento.
Così Piercarlo Palermo insiste sull’importanza della fase attuativa di un progetto, “come una fase generativa nel corso della quale obiettivi, strumenti e soluzioni progettuali possono essere rivisti e legittimamente messi a punto sulla base delle dinamiche di contesto, interazioni strategiche e processi di apprendimento”. E suggerisce di provare anche a rafforzare la resilienza dei progetti, come “capacità adattiva rispetto ai cambiamenti del contesto, a volte notevoli, inattesi e probabilmente imprevedibili”. Ma soprattutto richiama l’attenzione sulla necessità di migliorare la loro effettiva capacità d’azione, sfidando quelle ataviche resistenze disciplinari che hanno portato troppo spesso a una colpevole rimozione degli insuccessi registrati nelle esperienze concrete, pur mosse da lodevoli intenzioni.
Pepe Barbieri propone invece un profondo ripensamento del modo d’intendere il progetto, non più orientato esclusivamente alla fattualità delle cose ma piuttosto alla costruzione del consenso che permette poi di agire, con la prospettiva di ridefinire il senso dei diversi materiali dell’esistente e le loro relazioni costitutive. Il progetto urbano diventa così non solo un insieme coerente e dinamico di manufatti, ma un vero progetto civile, “in cui la qualità dei risultati è assicurata dalle modalità stesse in cui si realizza il percorso democratico delle scelte, per mezzo di una attivazione del contesto che coincide con la capacitazione delle sue componenti sociali ed economiche, messe in grado d’intervenire consapevolmente nel processo” . Per il suo tramite dunque l’architettura contribuisce attivamente allo sviluppo di un percorso argomentativo intersoggettivo, che dovrebbe facilitare la costruzione di decisioni consapevoli, considerando la messa in forma preventiva delle soluzioni ipotizzate come un utile contributo all’esplorazione partenariale dei futuri possibili. La prefigurazione concreta di scenari tangibili della trasformazione porterebbe finalmente l’architettura al cuore dei processi decisionali, sottraendola al compito laterale di vestire epidermicamente soluzioni belle e fatte.
Anche Paolo Desideri afferma la necessità di ritornare al progetto urbano per dare forma agli scenari possibili di evoluzione dell’esistente, con una peculiare attenzione al contesto e alla capacità di portare a coerenza i materiali depositati sul suolo, spesso sconnessi e incoerenti tra loro. Sicché il progetto deve farsi carico della responsabilità di ridisegnare un destino possibile per la trasformazione, provando a sciogliere l’enigma “posto dalla presenza di segni senza senso” che ingombrano il contesto esistente.
L’interesse di Franco Purini è volto invece a riaffermare soprattutto la natura sostanzialmente architettonica del progetto urbano, perorando il possibile ricongiungimento tra l’architettura e l’urbanistica che è nelle corde della tradizione italiana; e al tempo stesso disconoscendo l’attuale tendenza all’autonomia dei progetti per il paesaggio, che invece non appartiene affatto alla nostra storia.
Nelle riflessioni di Umberto Cao il progetto urbano si carica del compito soprattutto di connettere e reintegrare le microcittà che articolano il corpo della città esistente, limitando in generale il consumo di suolo, densificando per quanto possibile le aree già urbanizzate, e tutelando rigorosamente il patrimonio delle aree di antico impianto. Due sono le scale d’intervento prevalenti: quella interna alla singola microcittà, e quella d’insieme, che compone il quadro delle relazioni tra le microcittà individuate. Alle diverse scale, è possibile assumere specifiche linee guida cui dovrà essere ispirato il progetto urbano, confermando peraltro la sua matrice prevalentemente architettonica.
Un adattamento del progetto urbano in chiave urbanistica è invece l’approccio suggerito da Rosario Pavia e da Michelangelo Russo. Nel primo caso si propone una prospettiva nuova, tematizzando le prestazioni complesse esercitate del suolo, come “infrastruttura ambientale determinante per il ciclo del carbonio, dell’aria e dell’acqua”. Il suolo urbano dunque non va più considerato soltanto lo spazio fisico tra le coseda risignificare come già teorizzato da Secchi negli anni ‘80, ma anche lo spessore stratificato di risorse necessarie al dispiegamento dei metabolismi urbani, quindi indispensabile per governare al meglio gli equilibri ambientali, a loro volta esposti in misura crescente ai cambiamenti climatici in atto. Particolare importanza acquista in questa visione il suolo inedificato, dentro e al margine delle città, come “nuovo paradigma e cardine di una profonda revisione delle politiche urbane e ambientali”. Il progetto urbano dovrebbe assumere l’obiettivo prioritario di risanare e valorizzare i vuoti e l’inedificato esistenti, con l’intenzione di penetrare nella città costruita e rinnovarla profondamente.
Un approccio non molto diverso caratterizza il testo di Michelangelo Russo, anch’esso fiducioso sulla possibilità di praticare un nuovo progetto urbano più sensibile ai metabolismi ambientali e soprattutto capace di contribuire al riciclo delle risorse impiegate nella costruzione della città e del territorio. Dove “ il riciclo non è un modo per immaginare a posteriori cosa fare degli scarti, ma uno stimolo a ripensare il modo di usare e produrre ciò che diviene rifiuto, con un ciclo di vita impropriamente breve”. Attraverso il riciclo si afferma dunque un’idea di progetto alternativa, “ che ricerca un modo innovativo di conoscere e selezionare i materiali della realtà, per avere contezza del valore di ciò che deve essere conservato, rigenerato, modificato e ripensato con forme e significati diversi da quelli originari”. Il progetto urbano muta in definitiva il proprio oggetto, utilizzando l’obiettivo di un equilibrio sostenibile dei diversi flussi metabolici come occasione concreta per inventare nuovi assetti dello spazio fisico, appropriati rispetto ai valori ambientali da tutelare.
Una critica frontale al progetto urbano pensato con la strumentazione impositiva del passato proviene da Paolo Urbani, un giurista noto per le sue interpretazioni coraggiose dell’urbanistica contrattata, ancora orientata al primato dell’interesse pubblico, però alle nuove condizioni rese possibili dalla scarsità delle risorse pubbliche oggi a disposizione. Contrario a ingessare la situazione con strumenti urbanistici troppo rigidi, e pur consapevole delle critiche di arrendevolezza all’interesse privato che provengono dall’urbanistica ortodossa tuttora ancorata alle ideologie del passato, Urbani propone la filosofia innovativa del “meno piano, più contratto”, ovvero il passaggio “dal piano al contratto”. Con questo nuovo approccio ritiene possibile agevolare il montaggio di progetti che riflettono dinamicamente l’incontro tra domanda e offerta, attribuendo ai promotori immobiliari la responsabilità (e il rischio) della trasformazione, e al Comune il compito di stabilire eque misure di compensazione per gli investimenti in programma.
Infine Massimo Ilardi, un sociologo urbano anticonvenzionale, che per lungo tempo ha lavorato a fianco degli architetti nell’insegnamento e nella ricerca, radicalizza la sfida del progetto attuale, proponendo di abbandonare gli schemi consolatori applicati alla città moderna, e di costituire piuttosto il progetto come critica all’esistente, cioè come controparte politica rispetto alla pervasiva realtà di mercato. Questa tende infatti a disegnare in modo liscio e uniforme lo spazio globale delle città, appiattendone progressivamente le differenze. Mentre il progetto opera per differenze spazialmente circoscritte e contingenti, e non si disperde su tutto il territorio. Il nuovo progetto urbano deve nascere dall’incessante conflitto che permea la città contemporanea; “non ha macerie del passato verso cui volgersi: può solo vivere al presente, finché si oppone al disordine e, insieme, mette in crisi l’ordine consolidato”. A queste condizioni, un progetto “ben piantato nel mondo tiene conto delle tensioni che lo attraversano, persegue obiettivi contingenti, produce misura e forma del territorio” e può perfino tentare la difficile mediazione tra l’ordine vagheggiato e il disordine diffuso ovunque, come esito dei conflitti connaturati alla città contemporanea, a sua volta strutturata soprattutto dalle crescenti ineguaglianze nell’accesso ai consumi. Così il progetto -che non ha più tradizioni cui far riferimento perché la città del passato è stata abolita e quella nascente ancora non s’intravvede con chiarezza- può tentare di avere comunque un suo ruolo positivo, se assume un ruolo politico, esercitando una critica fattiva e circostanziata delle spinte all’omologazione associate all’attuale società di mercato.

Non è ancora il momento per approfondire il confronto tra le diverse posizioni emerse nel dibattito avviato dalla rivista. Nei prossimi numeri, altri ancora saranno chiamati a proporre un proprio contributo sul modo d’intendere il progetto urbano, e sul suo possibile rilancio come metodo di governo delle trasformazioni in atto nelle città. Diventerà allora possibile cominciare comporre i primi bilanci, valutando la pregnanza delle diverse ipotesi in campo, e spingere in avanti la riflessione verso le posizioni più convincenti, e se possibile più condivise.
Resta comunque l’impressione che al momento la profonda crisi di questo strumento non sia stata ancora sufficientemente metabolizzata all’interno della nostra cultura disciplinare, e che i tempi non sembrano ancora maturi per scalzare le visioni ineffettuali del recente passato con nuove formulazioni all’altezza dei tempi.

 

Riferimenti bibliografici

Burdett R., 2014, Accretion and Rupture in the Global City, in Galdanho P., op.cit.
Clementi A., 2016, Forme imminenti. Città e innovazione urbana, LISt Lab, UE
Clementi A., Pozzi C., a cura di, 2015, Progettare per il futuro della città, Quodlibet, Macerata
De La Pena B., 2013, Embracing the Autocatalytic city, TED Books
Dente B., L.Bobbio, P.Fareri, M.Morisi, 1990, Metropoli per progetti,
Gandano P., edited by, 2014, Eneven Growth, Museum of Modern Art, New York
Gregotti V., 1993, La città visibile, Einaudi, Torino
Kwinter S., 2010-11, Requiem for the City and the End of the Millennium, Actar, Barcelona
Secchi B., 1989, Un progetto per l’urbanistica, Einaudi, Torino