Editoriale

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Tra Eco e Web. Convergenze possibili. Alberto Clementi PDF

Da tempo EWT sta insistendo sulla necessità di aggiornare criticamente e di rendere più rigorose e operabili le nozioni relative alla sostenibilità (eco) e allo smartness (web), prima che il logorio dovuto all’indeterminatezza e all’ambiguità di queste parole-slogan si risolva in un precoce declino d’interesse. É risaputo infatti quanto la cultura architettonica sia sensibile alle novità che fertilizzano il campo della progettazione, essendo molto spesso gli architetti i sensori più pronti a intercettare i mutamenti del tempo. Ma questa fervida propensione alle novità sconta talvolta un’insufficiente tensione all’approfondimento paziente, soprattutto per quei temi che appaiono più complessi e sfuggenti, o in continua evoluzione, come accade effettivamente per il Sustainable & Smart Urban Design, centro problematico della nostra rivista.

Dopo anni che la sostenibilità è all’ordine del giorno dell’architettura e dell’urbanistica, non c’è da stupirsi se da più parti, soprattutto negli ambienti accademici più sofisticati, si comincia a prendere le distanze dal tema, provando ad esorcizzare il profondo cambiamento che questo concetto richiede al nostro modo di pensare e operare il progetto per la città; e così emergono altre sollecitazioni, da parte di chi preferisce rivolgere altrove le antenne ondivaghe dell’innovazione, in cerca di temi-mantra meno sfruttati.

Del resto, come afferma Kwinter, la stessa rivoluzione ecologica non può essere risolta unicamente nell’ambito delle tematizzazioni correnti della sostenibilità, dell’ambientalismo, della tecnologia o della ricerca scientifica (S. Kwinter, Notes on the Third Ecology, 2010). Anzi, i discorsi sulla sostenibilità possono rivelarsi perfino più oppressivi che liberatori, più soffocanti che inventivi, se continuano a mantenere eccessivamente separati il mondo della natura e quello dell’uomo; o se in nome di un astratto funzionalismo ecologico viene sacrificato il “troppo umano” (fino all’esistenziale evocato da Guattari come terza ecologia), senza riconoscere che tutti questi mondi devono essere ricondotti a un’ecosfera più complessiva, entro cui possano svilupparsi dialetticamente le interazioni reciproche, mantenendo comunque il destino umano al centro delle posizioni verso l’ambiente.

Anche nei confronti del dilagante interesse per la smart city cominciano a manifestarsi dubbi e preoccupazioni crescenti, che stemperano notevolmente i toni entusiastici con cui sono state inizialmente accolte le tecnologie ICT applicate al funzionamento della città, fino alle ultime declinazioni sempre più intriganti dell’open source nell’architettura e nell’urbanistica.

Ad esempio, Greenfield, pur riconoscendo che l’armatura tecnologica del digitale sta alterando profondamente alcuni fondamenti su cui è stata impostata la vita nelle città per secoli, critica apertamente la versione della smart city che sta monopolizzando il dibattito attuale, troppo condizionata dalle strategie di mercato dei colossi dell’informatica, i quali del resto hanno letteralmente inventato il tema (A. Greenfield, Against the Smart City, 2013).

La smartness in questione va considerata come un’interpretazione alquanto riduttiva delle potenzialità che offriranno le infrastrutture digitali nel prossimo futuro, tanto straordinarie quanto probabilmente imprevedibili. Un simile modo d’intendere è gravato da alcuni limiti palesi, tra cui in particolare quelli imputabili ai modelli utilizzati per l’ottimizzazione delle prestazioni urbane. Questi modelli, in nome dell’efficienza, sono costitutivamente portati a sacrificare la presa in carico dei processi di contemperamento democratico tra le diverse esigenze e giudizi di valore espressi da gruppi d’interesse irriducibili tra loro. Appaiono inoltre incapaci di apprendere criticamente dall’esperienza, per esempio di fronte alle richieste avanzate dai movimenti di protesta civile o che emergono dai conflitti sociali nelle periferie. Sicché è difficile sfuggire al fondato sospetto che i sistemi smart city si stiano diffondendo a vantaggio soprattutto degli apparati amministrativi e delle aziende di servizio, oltre che naturalmente delle case produttrici di software. E soprattutto s’intravvede il rischio inquietante che l’estensione pervasiva di queste tecnologie avanzate di gestione della città possa aprire di fatto a derive autoritarie, con poteri forti che potrebbero fare un uso illegittimo dell’enorme quantità di dati sensibili sui comportamenti e sulle preferenze espresse dalle persone.

Il punto è che la città, per propria natura, tende a fungere inevitabilmente da crogiolo di contestazioni, tensioni e conflitti che contrappongono tra loro moltitudini di individui e gruppi portatori d’interessi, in presenza di un’amministrazione pubblica che è chiamata a praticare la difficile arte politica di bilanciare attese intrinsecamente irriducibili. Non è del resto un caso se il corto circuito affidato ai sistemi smart funziona meglio proprio dove – come a Singapore - la democrazia partecipata lascia il campo a una gestione autoritaria del potere, legittimata dall’efficienza tecnocratica.

Greenfield imputa questa propensione all’autoritarismo alle derive della cultura architettonica e urbanistica della prima modernità, alimentata allora come oggi dalla fiducia eccessiva nella tecnologia, dall’avversione nei confronti della città ereditata dal passato, dalla pretesa universalità dei bisogni e da una concezione eccessivamente autoriale delle trasformazioni urbane. Il fallimento di questa cultura sembra aver insegnato ben poco a chi vuole rilanciare in chiave eccessivamente tecnologica un funzionamento urbano governato dalla smartness, quando invece dovrebbero essere preferite soluzioni orientate piuttosto al modello della città autocatalitica, dove i processi adattivi si basano sull’esistenza di un’intelligenza locale diffusa, che migliora la capacità dei cittadini di promuovere dal basso i mutamenti di contesto e che in definitiva è volta a potenziare il loro capitale cognitivo favorendo la partecipazione attiva alle politiche urbane (B. De La Pena, Embracing the Autocatalytic city, 2013).

Ma proprio il riferimento critico alle attese della prima modernità apre lo spazio per una considerazione più equilibrata circa il ritrovamento delle lecorbusiane “condizioni della natura” e l’utilizzazione delle loro potenzialità per una progettazione più sensibile all’ambiente. Sotto questo profilo, occorre riconoscere che il primo trentennio del secolo scorso si è rivelato una congiuntura particolarmente favorevole all’innovazione. L’irrompere della natura nelle discipline del progetto ha inciso profondamente sulla ridefinizione delle tipologie edilizie e insediative, accompagnando una rivoluzione concettuale e operativa che non solo ha segnato irreversibilmente lo sviluppo dell’architettura e dell’urbanistica moderna, ma ha anche contribuito a farne il precursore di una nuova forma del tempo.

Oggi dovremmo riappropriarci di quell’attitudine a lavorare in modo creativo con la natura, rilanciandola criticamente una volta depurata degli errori, delle ingenuità e delle arretratezze strumentali e conoscitive figlie di quegli anni. In particolare, dovrebbe essere ridimensionato un approccio eccessivamente antropocentrico, facendosi invece carico di una responsabilità più consapevole nei confronti degli equilibri complessivi dell’ecosfera cui apparteniamo. In ogni caso non va abbandonata l’intuizione seminale di quell’importante momento storico: che l’ambiente, pur radicato necessariamente nella natura, è intriso di una dimensione fondamentalmente culturale e sociale; e che quindi i modi di abitare il mondo e di trattare la natura vanno considerati reciprocamente interdipendenti oggi più che mai.

Contro dunque la tirannia di un pensiero ecologico che tende ad assoggettare l’umano ad astratte leggi della natura, e contro anche la presunzione opposta, d’imporre le ragioni dell’uomo disconoscendo i loro effetti sull’ambiente, si tratta di lavorare su equilibri fragili e dinamici, sostenuti da un’adeguata informazione e comprensione dei fenomeni in gioco e guidati dalla piena consapevolezza degli impatti globali generati dalle trasformazioni operate dall’uomo.

A queste condizioni c’è da aspettarsi che le traiettorie finora separate della sostenibilità (eco) e della smartness (web) siano destinate quanto prima a intrecciarsi reciprocamente, rafforzandosi l’una con l’altra. Il territorio e la città ci appariranno allora sempre più come una combinazione multilivello e interdipendente di ecodistretti dal metabolismo tendenzialmente autobilanciato rispetto ai flussi d’ingresso e uscita delle risorse necessarie al suo funzionamento, e rispetto a cicli di vita integrati che sfruttano al meglio le dotazioni di ambientali e territoriali locali, riducendo sensibilmente i consumi esterni. Al tempo stesso, la conoscenza e gestione di questi complessi metabolismi ecosistemici potrà contare sempre di più sulle straordinarie potenzialità delle tecnologie smart, con sofisticati software disegnati apposta per monitorare e regolare le diverse variabili in gioco.

Tuttavia, ben consapevoli dei limiti dell’ambientalismo convenzionale, gli ecodistretti saranno individuati stavolta non soltanto come espressione dei caratteri di naturalità di un determinato territorio. Tenderanno piuttosto a riflettere le relazioni istituite con i caratteri esistenziali, gli stili di vita e le forme di socialità della popolazione; con le dotazioni insediative e infrastrutturali del territorio e con i loro modi di uso da parte degli abitanti; con le tecnologie e le forme di economia praticate localmente; e infine con le stratificazioni della storia e della cultura impresse nel paesaggio, dando concretamente seguito a quanto aveva già profeticamente ipotizzato Banham più di quaranta anni fa (R. Banham, Los Angeles. L’architettura di quattro ecologie, 1971).

In definitiva, le città potranno essere interpretate come combinazioni specifiche di ecodistretti multilivello, autobilanciati, iperconnessi, identitari e culturalmente qualificati, con caratteri profondamente diversificati in ragione dei mutevoli equilibri tra naturale e artificiale, tra ambiente e storia, tra locale e globale. Sarebbe allora maturo il tempo per quell’incontro tra eco e smart nella progettazione della città, che è stato posto a base del programma editoriale di EcoWebTown ormai tre anni fa.

I contributi raccolti da questo numero, dedicato prevalentemente all’esperienza della Germania e della Catalogna, ci raccontano altri modi ancora d’intendere e praticare la filosofia della sostenibilità, attribuendogli differenti ruoli nella progettazione del territorio.

La restituzione dell’esperienza tedesca, curata da Jörg Schröder, mette in evidenza le recenti tendenze a declinare la sostenibilità ormai fino alla scala regionale, in un Paese che da tempo si distingue in Europa per la sua sensibilità ai valori dell’ambiente e per la propensione allo sviluppo sostenibile, e che giunge ormai a incorporare anche la produzione locale di beni alimentari come componente necessaria al funzionamento di un ecosistema urbano complessivamente equilibrato al suo interno. In particolare, il progetto Agropolis proposto per il quartiere Freiham a Monaco, e descritto da Hartig in questo numero di EWT, esemplifica bene la maturità raggiunta nel trattare le questioni della sostenibilità territoriale, dando origine tra l’altro a nuovi paesaggi agrourbani che si propongono di riscattare il degrado di molte periferie di transizione tra l’urbano e il rurale, conferendo loro un ruolo economico e sociale adatto a contrastare efficacemente le pressioni dell’urbanizzazione altrimenti incontenibili.

Con una sorprendente lungimiranza, anche la Barcellona di Cerdà era stata pianificata nell’Ottocento in modo che oggi definiremmo sostenibile, poiché si era provveduto contestualmente a soddisfare il fabbisogno di approvvigionamento alimentare della metropoli in costruzione, in particolare attraverso la messa a coltura di un’area intorno alla città di Lleida, ai piedi dei Pirenei, distante circa 160 km. Quest’area era stata appositamente infrastrutturata con opere irrigue e stradali, e collegata per mezzo di una nuova ferrovia, che avrebbe dovuto garantire un’efficiente logistica a servizio della nuova Barcellona, operando a una scala propriamente regionale.

Oggi la Catalogna, come del resto gran parte delle regioni europee, sembra aver perduto la straordinaria previdenza con cui aveva saputo programmare lo sviluppo della città agli esordi dell’urbanistica moderna. Nonostante la puntuale e aggiornata attenzione alle questioni della sostenibilità, le soluzioni praticate localmente non differiscono troppo da quelle già adottate da altri Paesi europei.

Peraltro il quadro delineato da Francesc Munoz, che ha curato l’interpretazione dell’esperienza catalana, testimonia la notevole maturità raggiunta da questa regione nel trattare il tema della sostenibilità alle diverse scale, mettendone in evidenza in particolare tre articolazioni: la sostenibilità urbana, riferita alle sfide di uno sviluppo low-carbon e climate-proof; la sostenibilità territoriale, come risposta delle città e dei paesaggi alla dispersione regionale delle urbanizzazioni; la sostenibilità culturale, per valorizzare il patrimonio locale identitario e il paesaggio ordinario, contro l’approccio dilagante del past&copy che sta “urbanalizzando” le attuali forme insediative. In linea con queste riflessioni, anche il contributo di Laudy testimonia la consapevolezza ormai acquisita in Catalogna nel considerare l’architettura della sostenibilità da sintomo della crescita economica a strumento per il benessere, alla ricerca di nuovi paradigmi d’azione che dovranno far seguito alla fine dell’età dell’abbondanza conosciuta dalla Spagna come altrove in Europa.

In definitiva, se si vuole restituire un ruolo significativo all’architettura e all’urbanistica in questa nuova fase dello sviluppo urbano e territoriale, emerge dall’esperienza catalana la necessità di “give rise to a much productive understanding of the real boundaries of the sustainability concept, from the conceptuals limits represented by the mere environmental definition of idea” (Munoz). Espresso in altri termini, è proprio ciò che sta cercando di affermare da tempo la nostra rivista EWT, espressione di una modernità riflessiva nell’architettura e nell’urbanistica che intende misurarsi con le innovazioni richieste dall’epoca attuale, senza però farsi sovrastare dal potere delle tecnologie o degli interessi di parte nella costruzione della città.