In the foreground

Intervento di Pierluigi Sacco_IUAV Venezia

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Designing Eco-town
Convegno internazionale
12-13 maggio 2010
Facoltà di architettura, Università di Pescara

Mi sembra importante parlare del tema della dimensione socio-economica della sostenibilità, perché è una dimensione molto trascurata e spesso abbastanza fraintesa. Cercherò di fare un ragionamento molto stringato che però evidenzi soprattutto alcuni punti fondamentali su cui concentrarsi, perché su questo tema molto spesso si alza una specie di cortina di fumo. Finché ragioniamo sulle dimensioni ambientali della sostenibilità e sulle dimensioni fisiche della sostenibilità abbiamo dei criteri relativamente chiari, ma quando si arriva alla dimensione socio-economica si fa grande fatica ad arrivare ad una concretezza, ad una misurabilità e soprattutto ad una visione strategica. Se ci pensiamo, dal punto di vista logico, la sostenibilità di un processo è capire quali sono le condizioni che fanno si che questo processo non diventi auto-contradditorio. Il processo sostenibile è un processo che ha una logica di sviluppo che non intralcia se stessa.
In realtà gli economisti per tanto tempo hanno cercato di capire in generale quali fossero le condizioni di sostenibilità di un sistema economico. Quando l’economia è nata, è un atto di nascita più o meno ufficiale per quanto molto arbitrario, la famosa opera di Adam Smith “La ricchezza delle Nazioni” è stata scritta addirittura nel 1786, quindi all’inizio della rivoluzione industriale; la preoccupazione principale era quella di chiedersi come il nascente sistema capitalistico potesse essere davvero sostenibile, dando delle risposte che in un modo o nell’altro hanno orientato la riflessione degli economisti per i successivi 200 anni. Il punto è che noi oggi ci troviamo ad affrontare questo tema della sostenibilità di fronte ad una complessità di trasformazioni, i nostri sistemi socio-economici ed ovviamente il contesto urbano da questo punto di vista non solo non fa eccezione, ma complica ulteriormente i problemi. Vorrei spiegare un po’, in modo molto sintetico, illustrandovi in quattro principi fondamentali, come secondo me si può ragionare oggi concretamente sulla sostenibilità socio-economica dei processi di sviluppo urbano.
Una prima cosa che stiamo cominciando a capire è che dal punto di vista socio-economico oggi è molto pericoloso continuare ad immaginare dei processi di specializzazione economica di un territorio o di una città che siano monofiliera. Stiamo vedendo quello che sta accadendo a Prato, una specie di tragedia a cielo aperto, una delle economie locali, un tempo tra le più attive di Italia, tanto che il modello di distretto industriale cosi com’è stato canonizzato da Giacomo Beccattini, uno dei più importanti economisti industriali italiani, era proprio Prato. Era un po’ il suo laboratorio ed aveva ragione perché Prato è stata per anni una delle città simbolo di questo modello di sviluppo economico italiano che di fatto ha riscritto l’economia  italiana dagli anni settanta in poi. Che cosa sta accadendo oggi a Prato? Sta accadendo che una città che si è costruita come modello di sviluppo economico intorno al tessile, di fronte ad una crisi strutturale, per altro ampliamente anticipata, prevista addirittura con dieci anni di anticipo, non soltanto non è stata capace di reagire alla crisi, ma continua a recriminare sull’impossibilità di continuare a fare quello che ha sempre fatto. I pratesi oggi non è che dicono: oggi cosa ci troviamo a fronteggiare? Ma dicono: perché non siamo più in condizioni di fare quello che facevamo prima? Tra l’altro la nemesi più impressionante  è questa: ciò che ha distrutto il tessile in Europa sono i cinesi. Ovviamente, un modello di competizione globale ragionevole fa si che chi come loro in campi molto standardizzati, come oggi è il tessile, abbiano un vantaggio dal punto di vista dei costi sia ovviamente molto più competitivo.
E Prato è praticamente la capitale italiana dell’immigrazione cinese. Hanno portato praticamente il nemico in casa da questo punto di vista. Ma quello che è veramente più impressionante è proprio questo: la città si è talmente mentalizzata su questa idea che lo sviluppo si fa così, che oggi non riesce più a uscirne. Questo perché accade? Se pensate, c’è un’analogia molto forte con i processi di creatività biologica. Dal punto di vista biologico noi sappiamo che ciò che veramente permette un’evoluzione efficace, una risposta efficace ai condizionamenti ambientali, è la disponibilità di una notevole diversità genetica. La natura da questo punto di vista ragiona relativamente, non ha un piano preciso, però se ha a disposizione vari modelli su cui lavorare, attraverso l’ibridazione di questi modelli, produce un’evoluzione del codice genetico che crea specie nuove e individui nuovi che reagiscono per selezione naturale efficacemente ai condizionamenti ambientali. Per le città da questo punto di vista non è molto diverso, oggi noi sappiamo che quello che salva economicamente le città è la capacità di innovare, che non è quasi mai la capacità di creare qualcosa dal nulla. La capacità di innovare è la capacità di ibridare delle cose che esistono già in modo diverso.
Questo quindi cosa vuol dire? Vuol dire che una città che riesce ad essere veramente ecosostenibile oggi è una città che riesce a far parlare tra di loro settori e filiere produttive molto diverse tra di loro. Il problema è che ciò è difficile, mettete in una stessa stanza delle persone che parlano lingue diverse, è molto difficile farle comunicare perché manca un meccanismo di traduzione. Accade più o meno la stessa cosa se mettete in una stessa stanza imprenditori che producono cose diverse o persone che hanno responsabilità in diverse filiere produttive o in generale in diversi quadri istituzionali.
E’ difficile far parlare, diciamolo in modo molto banale,  qualcuno che si occupa di finanza pubblica con qualcuno che si occupa di urbanistica. Quello che si occupa di finanza pubblica dirà che non ci sono i soldi e quello che si occupa di urbanistica dirà che invece lui ne ha bisogno per un determinato motivo. Capite che se si resta all’interno delle specifiche logiche disciplinari c’è veramente poco da dirsi. Allora occorrono i meccanismi di traduzione, occorrono delle situazioni nelle quali persone che fanno cose molto diverse trovano la possibilità di dirsi cose reciprocamente interessanti, ovvero trovano la possibilità di immaginare dei modi di creare valore economico sociale che interessano ad entrambi. Che cosa sono concretamente questi meccanismi di traduzione? La risposta è che sono certi ambienti urbani. Oggi noi vediamo che ci sono degli ambienti urbani che funzionano da piattaforme di traduzione. Cosa vuol dire? Che sono delle situazioni nelle quali le persone sono incoraggiate dal contesto ambientale a trasgredire i loro limiti disciplinari e concettuali per cercare delle sintesi. Un esempio di città che funziona bene dal punto di vista del meccanismo di traduzione negli ultimi anni è Barcellona.
E’ interessante parlare di Barcellona perché tutti sappiamo che urbanisticamente Barcellona è uno dei grandi modelli europei. Tutti però forse non sappiamo che il vero segreto di Barcellona è continuare a ragionare come se tutto quello che si è fatto non fosse nulla. Cioè la città continua a ragionare su un’attenzione profondissima a cogliere l’ultima onda di sviluppo e non ad autocelebrarsi perché ha colto quelle precedenti. Io sono appena stato li, circa un mese e mezzo fa c’era la conferenza governativa del semestre spagnolo perché, come forse sapete, la Spagna ha la presidenza di turno del primo semestre dell’Unione Europea.
La conferenza governativa è stata dedicata alle industrie culturali creative, cioè a quel luogo che oggi funziona meglio di molti altri come ulteriore specificazione della città come meccanismo di traduzione. Cioè oggi noi ci rendiamo conto che affrontare in modo intelligente i temi della cultura della creatività non significa ragionare sul tempo libero delle persone, ma significa ragionare con le modalità attraverso cui le persone creano nuove idee. E questo non funziona solo nell’ambito culturale, funziona nell’ambito scientifico, funziona nell’ambito tecnologico, funziona in realtà in qualsiasi ambito. Ci stiamo rendendo conto che una città che non riesce a porre al centro del suo modello di sviluppo un continuo ragionamento sul senso di questo modello, non riesce neanche a crescere.
Allora non è sorprendente che nell’introdurre questo convegno il sindaco di Barcellona, che vorrei far notare, è rimasto dall’inizio alla fine, perché in questo tipo di contesti il politico sa che quando si ragiona poi bisogna anche ascoltare e prendere appunti. Il sindaco di Barcellona nel dare il suo saluto di circostanza, che di circostanza non era, ha spiegato che Barcellona comincia un nuovo ciclo di espansione ventennale che ha  a che fare con un gigantesco programma di investimenti nei settori culturali creativi, tra cui il cosiddetto  progetto 22 ABCN che è il più grande processo di riconversione di un’area urbana semicentrale tutta dedicata all’economia della conoscenza. Sono investimenti da centinaia di miliardi di euro, in un momento in cui come sapete la Spagna ha qualche difficoltà.
Queste difficoltà non hanno minimamente intaccato il percorso politico di questo progetto. Perché la Spagna in questo momento è consapevole del fatto che il  miglior modo di uscire dalla crisi sia quello di investire in modo strutturale sui settori che possono diventare strategici per il futuro. Va anche detto che il  ministro spagnolo è una ragazza di quarantaquattro anni che fa la regista e che il direttore generale del ministero è un ragazzo di trentotto anni. Quindi stiamo parlando di persone che decidono e che capiscono il contesto in cui stanno vivendo e quindi sanno anche creare le condizioni politiche per permettere la sostenibilità di questi processi.
Per riassumere, il primo punto fondamentale su cui vorrei ragionare è questo: la sostenibilità economica oggi ha a che fare con l’ibridazione delle filiere. Vi dico questo non solo in astratto, ma pensando anche al nostro amatissimo Abruzzo, perché in questo momento quando parliamo di strategie di competitività futura della regione, pensiamo proprio al discorso della ricostruzione del cratere; sento ancora molti dibattiti in cui si ragiona in un’ottica di monofiliera. Prendiamo un paesino e ne facciamo la filiera della produzione tipica del turismo fatto in un certo modo. Questi sono modelli di trent’ anni fa, sarebbe bene rendersene conto, non assicurano nessun tipo di sostenibilità, neanche a breve tempo. Perché vengono scelti? Per mancanza di altro, per mancanza di idee, perché di fatto non si sta facendo ricerca e riflessione seria su come una regione come questa, di cui tutti si dimenticano, sia una di quelle con il più alto tasso di alfabetizzazione d’Italia. Stiamo parlando di una regione che ha  elevati livelli di capitale umano rispetto ai residenti e che sembra non rendersi conto di come il tema dell’economia della conoscenza, come modello di ibridazione delle filiere, sia effettivamente la grande opzione di sviluppo su cui dobbiamo cominciare a ragionare seriamente.
C’è un secondo punto, quello che potremmo chiamare molto sinteticamente il circolo virtuoso delle capacità. Per molto tempo si è ragionato in maniera abbastanza miope su modelli di sviluppo nei quali si pensava che il vettore principale dello sviluppo fosse un grande investimento fisico: facciamo la fabbrica, creiamo le infrastrutture produttive. Pensando che tutto il resto sarebbe seguito di conseguenza, nel sud Italia questo ha portato allo spettacolare e triste fenomeno delle cattedrali nel deserto, cioè grande hardware e poco software. Pochissima capacità di fare in modo che la società e l’economia intorno a questi spazi produttivi funzionassero con una logica corretta. In realtà oggi questo problema si presenta in maniera ancora più devastante, perché se un tempo tutto sommato il problema consisteva nell’ avere l’hardware, quindi avere una grande capacità di costruire spazi e poi trovare tutto sommato manodopera poco specializzata; oggi i processi produttivi di cui stiamo parlando richiedono elevati livelli di competenza per funzionare.
Allora il vero problema è questo: se noi pensiamo che lo sviluppo oggi si faccia prendendo una piccola minoranza della società, educandola molto e facendola partecipare a questi processi, non abbiamo capito niente. Oggi i processi che funzionano dal punto di vista della sostenibilità socio-economica sono quelli inclusivi, cioè sono quelli in cui la maggioranza della popolazione presenta certe caratteristiche. Per cui noi dobbiamo creare veramente una società della conoscenza, cioè dobbiamo fare in modo che la maggior parte delle persone partecipino a questi processi. Perché altrimenti questi processi si spengono molto rapidamente. Faccio un esempio banale: voi avete il laboratorio di ricerca che produce delle belle idee, ma  poi il direttore della banca non ha la mentalità per finanziare il progetto rischioso ma interessante perché non ha gli strumenti per valutarlo e il politico non ha la visione per capire gli scenari in cui si sta ragionando. Se tutti gli elementi del processo non partecipano a questa comune tensione verso la costruzione di modelli nuovi, di significato nuovo, questi processi economici si inceppano o meglio prendono un’altra strada.
Per capire quanto è limitativa la nostra concezione pensate a come in Italia si fanno i parchi scientifici e di ricerca. Abbiamo fatto a Genova l’Istituto Italiano di Tecnologia, uno dei centri più ambiziosi che siano mai stati realizzati in Italia. Dov’è stato messo? E’ stato messo sulle colline oltre la città, in una specie di vuoto totale, come a dire che quello è il monastero di chi fa ricerca. Segnalando in maniera chiarissima che tra la città, che fa le sue cose, e questo tipo di situazioni non esiste nessuna continuità spaziale e quindi di fatto nessuna attinenza. Semplicemente è stato messo li perché c’erano le condizioni logistiche per metterlo. L’esempio che vi facevo prima circa Barcellona 22 ABCN è interessante perché questa concentrazione avviene proprio nelle aree di cerniera urbana, cioè nelle aree che servono a rivitalizzare completamente l’idea di città, la percezione di città. Se noi prendiamo la conoscenza e la mettiamo fuori dalla città è come se stessimo dicendo che tra città e conoscenza non c’è un’interfaccia interessante, cioè che la città non è un meccanismo di traduzione. Cioè stiamo letteralmente sovvertendo tutte le indicazioni più sensate che ci arrivano su come si possa fare oggi sviluppo urbano sostenibile.
Circolo virtuoso delle capacità cosa vuol dire? Vuol dire che più noi siamo in grado di includere i residenti di una città all’interno di questi processi, più diventa facile includere gli altri. Superata una certa soglia critica la gente ha bisogno di essere parte di questi processi perché altrimenti, in un certo senso, esclusa dalla vita della città. Noi oggi abbiamo città che hanno una lunghissima tradizione di capacità di essere incubatori di idee, pensate a Milano. Proprio perché questo meccanismo del circolo virtuoso della capacità non è assolutamente considerato come un’opzione fondamentale, continuiamo a pensare alla cultura e al dibattito intellettuale come cose legate al tempo libero, come cose inutili. In Italia c’è questo orrendo slogan che continua a parlare di uomini del fare, ma il fare senza pensare è la cosa più idiota che possa esistere.  Dobbiamo metterci in condizione di pensare che questi modelli di sviluppo o sono inclusivi dal punto di vista della conoscenza o semplicemente non sono modelli di sviluppo e quindi non sono sostenibili. Terzo punto, che discende abbastanza dal secondo: il tema della responsabilizzazione collettiva.
Oggi si sta cominciando a capire che questo modo,  molto malinteso di pensare il funzionamento del mercato come il primato assoluto dell’iniziativa individuale nello spregio più assoluto dell’interesse collettivo,  è un modo estremamente sbagliato di aver capito proprio i padri dell’economia a cui si attribuisce questo pensiero. Per tornare al famoso Adam Smith, che tutti richiamano pensando  alla famosa mano invisibile, cioè all’idea che ognuno si fa gli affari suoi e poi magicamente questo produce il benessere collettivo. Adam Smith non ha mai sognato di dire qualcosa del genere, Adam Smith è partito da una precisa idea dell’uomo come persona spontaneamente sociale che ha nel suo dna culturale la capacità di mediare il proprio interesse e quello degli altri e quindi può farsi gli affari suoi perché sa già che, nel farseli ,deve contemperare il proprio interesse con quello collettivo. Ciò vuol dire che per fare più profitti non avvelenerà la gente, per costruire di più non farà delle case insicure, etc.
Questo però naturalmente è stato dimenticato,  è stata dimenticata la premessa ed è restata la conseguenza, cioè ognuno si fa gli affari suoi e questo va bene per tutti. Non è cosi, noi di questo non solo oggi c’è ne stiamo rendendo conto, ma stiamo capendo che i progetti che fanno veramente economia, che costruiscono valore sono quelli che nascono dalla responsabilizzazione collettiva. Qui noi abbiamo di fatto, e questo mi sembra bello e tra l’altro denso di speranza, una nuova generazione che di fatto è una generazione nativa digitale, cioè di persone che sono nate all’interno di questi nuovi ambienti e che sanno che oggi le piattaforme più interessanti sono quelle nelle quali si condividono continuamente contenuti, idee e che spesso portano a queste nuove forme di creatività collettiva che di fatto sono quelle che producono le più grandi innovazioni. Se ci pensate,dal punto di vista economico sembra un assurdo che un quasi monopolista come Microsoft, che spende migliaia di dollari per creare un sistema operativo, venga beffato da un progetto collettivo senza nessuna sostanza imprenditoriale come Linux, che nasce come un progetto di auto-organizzazione di persone che, su base volontaria, producono pezzi di codice e producono un prodotto di gran lunga migliore di quello di Microsoft. Ma la cosa divertente è che spesso sono le stesse persone di Microsoft, che di giorno pagate progettano il prodotto Microsoft e poi magari la sera danno il meglio di se nel prodotto Linux, nel quale si riconoscono perché sono parte di una comunità.
Noi ci dobbiamo rendere conto del fatto che oggi fare economia equivale a ricostruire il senso di comunità. Se noi non ci sentiamo parte di una comunità di senso lavoriamo perché ci pagano, ma non diamo il meglio di noi perché il meglio di noi lo riserviamo per le cose che hanno senso per noi. Se vogliamo ritornare ad essere produttivi dobbiamo riallineare questi due diversi fenomeni: dare il meglio di noi e creare valore economico. Chi riesce a capire questo, le città che riescono a creare le condizioni perché le persone si incontrino, si aggreghino, abbiano spazio e risorse per sviluppare questo tipo di sensibilità, crescono e sono sostenibili; quelle che non lo fanno non lo sono.
Quindi, tre punti finora: ibridazione delle filiere , circolo virtuoso delle capacità e quella che potremmo chiamare la responsabilizzazione collettiva. L’ultimo punto che vorrei trattare è la complementarietà strategica tra l’infrastrutturazione fisica e quella immateriale. Noi oggi non c’è ne rendiamo conto, ma l’esempio dell’Aquila che abbiamo sotto gli occhi c’è lo spiega benissimo, ragionare sull’infrastruttutrazione fisica senza pensare a quella sociale produce, come abbiamo visto, notevoli distorsioni. Questo non è vero solo nelle situazioni estreme della post-catastrofe, è vero soprattutto nella normalità quotidiana, nella quale per esempio oggi non ci si rende conto del fatto che l’infrastrutturazione fisica crea automaticamente tutta una serie di canali preferenziali che, è vero che cambiano l’organizzazione spaziale della città, ma cambiano soprattutto l’organizzazione cognitiva della città. Ovvero, penso ad esempio ad una metropolitana, mettiamo all’interno di una narrativa nuova delle cose che prima erano separate.
Al di la del fatto che stiamo governando dei flussi, questo come cambia la percezione della città? Al di la del fatto che dobbiamo risolvere problemi contingenti di efficienza di determinati servizi, questo come permette di riorganizzare le energie della città per esempio dal punto di vista della riqualificazione di zone sociali degradate, dal punto di vista della creazione di meccanismi inclusivi per chi è fuori dai circuiti della formazione di competenza? Come cambia l’identità stessa della città? Da questo punto di vista diventa assolutamente fondamentale arrivare a delle metodologie di progettazione strategicamente complementari , nelle quali la valutazione dell’impatto fisico e logistico é sempre collegata alla valutazione dell’impatto sociale. Sono quattro principi molto semplici che se venissero applicati coerentemente cambierebbero profondamente il modo in cui noi oggi ragioniamo sulla sostenibilità.
Credo che soprattutto in Italia in questo momento nel quale facciamo fatica a vedere, con la parziale eccezione di Torino, una città che si è  veramente voluta dare una logica strategica di trasformazione per i prossimi venti anni, al di là della retorica dei piani strategici italiani che sono quasi sempre banali esercizi di psicanalisi collettiva, nei quali si fa una lista dei desideri , si chiamano tutti e si fanno parlare tutti per arrivare poi a dire che non ci sono i soldi e che si deve fare quello che si era deciso in principio, dieci anni prima. Se superiamo la logica della partecipazione strumentale e inutile e cominciamo a ragionare su veri meccanismi di partecipazione collettiva, credo che il tema della sostenibilità possa diventare una linea rossa importante su come ripensare la nostra città.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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EWT/ EcoWebTown
Magazine of Sustainable Design (Quadrimestrale on line sul progetto di città sostenibile)
Edizione SCUT, Università Chieti-Pescara
Registrazione al tribunale di Pescara n. 9/2011 del 07/04/2011